Il potere mediatico e la crisi della democrazia

Para Umberto Cerroni
Um Mestre e um Amigo

1. La democrazia rappresentativa (1) è arrivata ad un punto di svolta (2). Uno dei suoi elementi strutturanti, la differenza tra rappresentanza e rappresentato, tra palazzo e piazza, tra società politica e società civile, tra Stato e società, si sta logorando sempre di piu man mano che il potere mediatico irrompe come centro soggettivo di potere auto-rifles­sivo e auto-referenziale, avanzando pretese di occupazione esclusiva deI luogo della differenza. Questo potere, quale modo di produzione industriale di infotainment, si interpone sempre di più tra la rappresentanza politica e il cittadino, assumendosi esso stesso come «rappresentanza organica», ossia come vera e propria società civile di secondo grado. Esso affonda tanto più nello stesso sistema del potere politico quanto più elevata è la sua posizione nella gerarchia dei poteri civili e quanto più esclusivo diventa come spazio pubblico, escludendo o oscurando le altre forme di interazione comunicativa. Esso svolge allo stesso tempo funzioni di rappresentazione e funzioni di estensione organica della società civile, assumendo sempre di più le proprie funzioni come veri e propri imperativi sistemici. Così la rappresentazione si trasmuta in rappre­sentanza (politica) informale, laddove esso diventa, da un lato, spazio pubblico esc1u­sivo, gestito direttamente dai suoi agenti, secondo i propri criteri, le proprie regole ed i propri interessi in base a esigenze funzionali di tipo sistemico, e dall’altro, et pour cause, diretto protagonista politico.

Non è un caso che Habermas, nella Prefazione alla nuova edizione del 1990 di «Strukturwandel der Öffentlichkeit», si ponga un problema che egli giudica non risolu­bile «senza un considerevole sforzo empirico: se e in che misura una sfera pubblica dominata dai mezzi di comunicazione di massa offre agli esponenti della società civile la possibilità di entrare in concorrenza, con buone prospettive, con gli invasori dell’ eco­nomia e della politica e, dunque, di modificare, liberare dalle barriere e filtrare critica­mente lo spettro dei valori, dei temi e dei motivi canalizzati dall’influenzamento ester­no» (Habermas, 1962, XLI). Habermas, si sa, punta ad un concetto discorsivo della democrazia (Habermas, 1996, pp. 235-259), dove «l’opinione pubblica viene elaborata in potere comunicativo dalle procedure democratiche», cioè laddove il suo è un potere indiretto di indirizzo sul potere amministrativo, ma sopratutto un potere libero sia dal comando amministrativo sia dal comando economico. E tuttavia egli non confonde potere dei media con potere comunicativo giacché mentre, da una parte, intravede la presenza di imperativi di tipo sistemico nei media stessi (Habermas, 1992, pp. 435,442, 444), dall’altra, rinvia le interazioni comunicative informali ad una sfera più ampia, la «società civile», così come la definisce in «Faktizität und Geltung», del ’92, «il suo núcleo istituzionale è invece costituito dalle alleanze e associazioni volontarie – di tipo non sta­tale né económico – attraverso cui le strutture comunicative della sfera pubblica si ancorano alla componente del mondo di vita relativa alla società. La società civile è compo­sta da quelle associazioni, organizzazioni e movimenti che più o meno spontaneamen­te intercettano e intensificano la risonanza suscitata nelle sfere private di vita dalle situazioni sociali problematiche, per poi trasmettere questa risonanza – amplificata – alla sfera pubblica politica. Il nucleo della società civile è costituito da una rete associativa che istituzionalizza […] discorsi miranti a risolvere questioni d’interesse generale». «Certo», aggiunge subito Habermas, «queste associazioni non sono l’elemento preva­lente in una sfera pubblica dominata da mass media e grandi agenzie, tenuta sotto osser­vazione da inchieste di mercato e sondaggi d’opinione, irretita dalla pubblicità e dalla manipolazione di partiti politici e gruppi d’interesse». E «tuttavia», conclude, «sono queste associazioni a formare il sostrato organizzativo di un universale “pubblico di cit­tadini” emergente per così dire fuori dalla sfera privata. Questi cittadini cercano sia di dare interpretazioni pubbliche ai loro interessi e alle loro esperienze sociali sia d’in­fluenzare la formazione istituzionalizzata dell’opinione e della volontà» (Habermas, 1992, p. 435; 1962, XXXIX). Cioè la politica deliberativa cerca di sfuggire ad una colonizzazione sistemica delle interazioni comunicative sia da parte del potere ammi­nistrativo e del potere economico sia da parte dello stesso potere mediatico, anche per­ché «pur essendo noi relativamente informati sull’impatto e sulle modalità operative dei mass media, nonché sulla divisione di competenze tra il pubblico e una pluralità di atto­ri, e pur potendo anche ragionevolmente individuare chi dispone del potere dei media», tuttavia, «ciò che ancora non vediamo chiaramente è il modo in cui i mass media inter­vengono nella complicata circolazione comunicativa della sfera pubblica politica» (1992, p. 447), così come non vediamo il suo potere «sufficientemente disciplinato dagli standard della professione» (1992, p. 446). La circolazione comunicativa è tal­mente ampia da non poter restare confinata al potere mediatico, nonostante il suo forte potere d’agenda (1992, p. 452). Perciò, Habermas sostiene che «i mass media devono intendersi come “mandatari” d’un pubblico illuminato, la cui capacità di apprendimen­to e di critica essi -nello stesso tempo – presuppongono, pretendono e rafforzano. Analogamente all’apparato giudiziario, anche i mass media devono tutelare la loro autonomia da attori politici e da attori sociali» (1992, pp. 448-449). Ma è proprio qui che si verifica, oggi, da parte dei media, una vera e propria inversione dei valori propo­sti da Habermas, giacché essi stessi vengono colonizzati dall’agire razionale orientato al successo (zweckrational) importato dal sottosistema economico, cioè non agendo più prevalentemente in vista dell’intesa, bensì in vista del successo, razionalmente rispetto allo scopo, cioè in vista dell’ audience (e della pubblicità) (3).

La finanziarizzazione, l’imprenditorializzazione e le tendenze alla concentrazione che si stanno verificando nel potere mediatico fanno sì che venga meno la pretesa di promuovere un concetto discorsivo di democrazia dove la legittimità poggi su pubbli­ca argomentazione fondata su pretese di validità universale, poggi sui fondamenti del­l’agire orientato all’intesa, così come viene abbondantemente teorizzato da Habermas nella sua «Theorie des kommunikativen Handelns», del lontano ’81, oppure, potremmo anche dire, come già viene schizzata nello stesso imperativo categorico di Kant.

D’altra parte, come dice lo stesso Habermas, «quanto più ora il pubblico unificato dai mass media ricomprende tutti gli appartenenti d’una società nazionale, o addirittu­ra tutti quelli che vivono in una certa epoca, tanto più nettamente i ruoli degli attori che salgono sulle arene si contrappongono ai ruoli degli spettatori in galleria» (1992, p. 444). Ed è proprio nel potere di controllo delle condizioni generali e specifiche di accesso degli attori a questi ruoli che, da una parte, risiede il potere dei media e la sua capacità di fagocitare l’intero spazio pubblico e, dall’altra, si concentrano le tendenze alla contrapposizione tra i ruoli dei cittadini e quelli dei vari attori che hanno la possi­bilità di accedere allo spazio mediatico, generando così «un potere dei media che, impiegato manipolativamente, ha tolto al principio della pubblicità la sua innocenza». «La sfera pubblica pre-strutturata e insieme dominata dai mezzi di comunicazione di massa», dice Habermas, «si è trasformata in una arena depotenziata, nella quale i temi e i contributi si contendono non solo l’influsso, bensì anche un governo, le cui inten­zioni strategiche sono quanto possibile occultate, dai flussi di comunicazione in grado di influenzare il comportamento». Per questo, Habermas distingue chiaramente tra «fun­zioni critiche dei processi di comunicazione autogovernati, sostenuti da istituzioni deboli, ramificati anche orizzontalmente, inclusivi e più o meno discorsivi» e «funzio­ni di influenzamento delle decisioni di consumatori, elettori e clienti da parte delle organizzazioni che intervengono in una sfera pubblica dei mezzi di comunicazione di massa per mobilitare potere d’acquisto, devozione o buona condotta» (1962, XXII­-XXIII). L’agire orientato all’intesa, secondo le modalità dell’agire comunicativo, è, per Habermas, cosa ben diversa dell’agire razionalmente rispetto allo scopo, in vista del successo, per cui la comunicazione pubblica non può essere ridotta alIa logica dell’agi­re strumentale e della persuasione strumentale del pubblico.

2. E, tuttavia, la rappresentanza (politica) informale, ma anche formale, a carico degli attori mediatici di qualunque provenienza, ma di sicura influenza personale o organizzazionale, si presenta regolarmente davanti all’ assemblea del popolo riunita nel nuovo spazio pubblico elettronico, cioè davanti allo schermo televisivo, cercando d’in­fluenzare, d’accordo con i propri interessi, decisioni di «consumatori, elettori e clien­ti». Lo spazio dei media emerge così come lo spazio verso il quale convergono sia la rappresentanza formale o informale che il popolo rappresentato, sia come consumato­re/cliente sia come pubblico/elettore.

La personalizzazione della politica – istituzionale e partitica – emerge con significa­to istituzionale (Habermas, 1992, p. 447) quando il sistema mediatico diventa un siste­ma a dominante elettronica, istantaneo e universale, capillare, onnivoro e (post)indu­striale, con la capacità cioè di ri-produrre elettronicamente il reale trasformandone le regole, ridisegnando nuovi rapporti e oscurando definitivamente vecchi steccati. L’ opera di Meyrowitz, «No sense of place. The impact of electronic media on social behaviour» (Meyrowitz, 1985), dimostra proprio questo: cioè la percezione che il cittadi­no ha del suo stesso ruolo sociale rispetto ad altri ruoli, la percezione dello spazio fisi­co e sociale che occupa rispetto ai vecchi steccati sociali e il suo stesso rapporto cogni­tivo con la totalità dell’ambiente che lo avvolge vengono radicalmente cambiati con l’avvento dei media elettronici, specie attraverso un vero e proprio oscuramento dei confini presenti nelIe interazioni proprie del mondo dell vita e irriducibili alla conver­sione elettronica (vedasi l’adesione, ma anche la critica di Habermas, 1962, pp. XLI-XLII). La personalizzazione, riconosciuta come caratteristica discriminante deI nuovo approc­cio politico alIo spazio pubblico elettronico, viene ormai accompagnata da una vera e propria rivoluzione nel nuovo rapporto percettivo e cognitivo dei cittadino (pubblico-­spettatore) con i propri ambiti situazionali e con i diversi ruoli sociali, specie se para­gonato alIa vecchia rappresentazione empirica (pre-elettronica) dei propri ruoli ed ambiti situazionali. Cioè cambia il rapporto tra politica e cittadino, emergendo, sì, la personalizzazione, ma all’interno di un profondo cambiamento nelIa percezione delle strutture relazionali che determinano i rapporti percettivi e cognitivi con il reale, dal­l’auto-referenzialità all’etero-referenzialità (Habermas, 1992, p. 447; 1962, XLI-XLII).

3. Ormai, niente di ciò che è umano (dal sociale all’intimo) è estraneo al sistema mediatico. E, quindi, tutto ciò che assume la forma di prodotto mediatico ha un viso o, almeno, una forma visuale. II trionfo della cultura visuale accompagna il trionfo del sistema mediatico. Entrambi intaccano radicalmente la cultura della differenza – la loro e una cultura omologatrice (Habermas, 1992, p. 444) – provocando una specie di tra­smutazione della natura stessa della democrazia rappresentativa verso una specie di neodemocrazia diretta. Cioè, una democrazia diretta debole: da un lato, per la progres­siva affermazione di potere di queste strutture organiche intermedie – i ceti sociali diret­tamente e produttivamente coinvolti nel potere mediatico e i poteri proprietari che lo comandano, che costituiscono quelIa che ho chiamato rappresentanza organica, di cui élites manageriali e giornalistiche e infotainers – con forte capacità politica di revoca informale e strisciante dei mandato, cambiando la natura stessa del mandato non impe­rativo, discriminante fondamentale della democrazia rappresentativa; dall’altro, per la personalizzazione del mandato, laddove un rapporto diretto con il popolo è diventato possibile proprio grazie a questo potere (4).

In effetti, l’emergenza di un indubitabile e crescente protagonismo politico dei media, il crescente affermarsi di un importante ceto sociale connesso direttamente con i media, la crescente personalizzazione della comunicazione politica, il profondo cam­biamento nella percezione delIe strutture che determinano il rapporto percettivo e cognitivo del soggetto con il reale (soggettivo, oggettivo e sociale), il cambiamento della natura di uno spazio pubblico che è passato dal luogo fisico all’ assenza di luogo (dal luogo alla rete o al luogo virtuale), la profonda mutazione delIe categorie percet­tive umane -giungendo perfino alle stesse strutture percettive e cognitive- ad opera delIe sofisticate protesi tecnologiche, tutto ciò sta provocando profonde mutazioni negli stessi meccanismi centrali della democrazia rappresentativa.

Queste trasformazioni si sono verificate in un contesto più ampio, cioè nel contesto di profondi cambiamenti sociali, specie con l’emergenza della «middle class» come grande centro trasversale a tutta la società post industriale, ormai non più definita attra­verso le grandi «cleavages», le grandi fratture sociali, o le sostanziali appartenenze iden­titarie, bensì attraverso criteri di tipo sovrastrutturale (Scalfari, 1994). Ma anche in un contesto di finanziarizzazione e managerializzazione dell’economia, di imprenditorializ­zazione e di generalizzazione dei settore privato della comunicazione. Inoltre, tutto ciò si è verificato in un mondo non più strategicamente, politicamente e ideologicamente bipolare, dove non vige più una logica antagonistica che sovradetermini il funzionamen­to delIe società. Cioè laddove alla caduta delle ideologie politiche ha corrisposto l’emer­genza di nuovi protagonismi fino allora marginali perché strumentali alIa logica bipola­re del confronto ideologico. E nuovo fu davvero il forte protagonismo dei media. L’Italia del dopo 1989 è stata un esempio davvero chiarificatore. In effetti, il 1994 ha rappresen­tato il trionfo della civiltà mediatica sulla vecchia civiltà delle ideologie politiche e par­titiche (Abruzzese, 1994; Morcellini, 1994, 1995; Statera, 1995; Mancini, Mazzoleni, 1995; Bentivegna, 1995). Trionfo che qualcuno ha osannato come un «Elogio del Tempo Nuovo» (Abruzzese, 1994; ma vedasi anche Abruzzese, Miconi, 1999).

Oggi, i media, assieme a tutti i saperi e mezzi tecnico-scientifici e tecnologici, sia di rilevazione dello stato delI’opinione pubblica e dei diversi mercati (sondaggi e ricerche di mercato) sia di intervento simbolico su di essi (comunicazione e marketing), svolgo­no un ruolo talmente potente che si parla ormai di democrazia del pubblico, di demo­crazia dell’opinione o di democrazia post-rappresentativa. Un’analisi deI processo che nel 1994 condusse Silvio Berlusconi al potere ci può dare un esempio abbastanza evi­dente – quasi di tipo laboratoriale – del modo come tutto ciò possa funzionare in piena convergenza verso la conquista del consenso e la presa del potere (5).

4. Per evidenziare il senso di questo «Tempo nuovo», di questa profonda mutazione che sta avvenendo sotto i nostri occhi, Alain Minc, in L ‘ivresse démocratique, parIa addirittura dell’emergenza di «una nuova santa trinità»: «una trinità si spegne, fonda­mento della democrazia rappresentativa; un’altra entra in scena: il giudice, i media, l’opinione» (Minc, 1995, p. 76). La vecchia trinità di cui parla Minc era composta dalla democrazia rappresentativa, dallo Stato Sociale e dalla classe media. La nuova, dai media e dall’ opinione, oltre che dal giudice. Si tratta, dunque, di un cambiamento sostanziale, laddove la preminenza del principio elettivo e del mandato non imperati­vo, dei beni pubblici e di una base sociale di rango intermedio e stabile cede di fronte all’irruzione del rapporto dirompente tra media e pubblica opinione, connesso, sempre di più, anche al potere giudiziario (6).

D’altra parte, questo rapporto si rifà sempre di più ad una classe emergente di nuovo tipo, la cosiddetta «middle class», che si identifica con quel grande ceto sociale interme­dio definito, ormai, di più attraverso criteri di consumo, stili di vita e status sociale che attraverso le grandi fratture sociali, le identità sostanziali di appartenenza e le Weltanschauungen filosoficamente e ideologicamente elaborate. Una classe emergente che si identifica più come pubblico che come cittadinanza, più come consumatrice o spet­tatrice che come produttrice, più come insieme numerico e disgregato di individui, sin­goli e passivi fruitori, che come insieme organico, comunità attiva e partecipe (7). Una clas­se che, quindi, si identifica con il grande centro trasversale della società, anonimo, noma­de, flessibile, culturalmente precario (Scalfari, 1994). Questa «middle class» costituisce, d’altronde, il vero punto sociale di riferimento dei mass media: come pubblico e come moltitudine solitaria che vive in solitudine multipla (Virilio, 1993, p. 17). Essa è il prodot­to più specificamente sociale della società post industriale e, nella sua estesa e poco com­prensiva – proprio perché «middle class» – dimensione generica, corrisponde alle stesse categorie di pubblico a cui parlano i grandi mass media, specialmente la televisione. Cioè la «middle class» abita lo stesso spazio pubblico degli spettatori televisivi, diventando il grande punto di riferimento delle industrie culturali e, per ciò, anche dei mass media.

5. Tra il concetto di pubblico e quello di cittadinanza c’è un divario incolmabile che non si puó cancellare. Lo spazio pubblico democratico non può corrispondere ad una platea teatrale o televisiva dove si cerca permanentemente di promuovere l’identità di tutto ciò che sta oltre la differenza tecnica tra attore e spettatore, tra élites artistiche e pubblico. Cioè non si può convertire il concetto di cittadinanza nel concetto di pubbli­co senza scivolare verso concezioni strumentali della democrazia stessa, laddove il pro­cesso di decision-making politico sarebbe riservato a delle élites separate ed esclusive che si auto-propongono regolarmente (nelle elezioni) come offerta politica (di persona­le politico) ad un pubblico, altrettanto separato, come semplice spettatore e consuma­tore del prodotto offerto, come se si trattasse di un mero rapporto di consumo, dove la differenza risiede nel rapporto di produzione e l’identità nel rapporto di consumo. Cioè la differenza o separazione del palcoscenico e degli attori dal pubblico non equivale, come vedremo, a quella separazione o differenza tra rappresentanza e popolo, nono­stante le somiglianze. Nel primo caso, non c’è delega e, quindi, la sovranità resta con il cittadino, potendo egli esercitarla ad ogni momento della rappresentazione; gli atto­ri non agiscono in suo nome, bensì in nome dell’arte, dell’autore e dei personaggi stes­si. Cioè la rappresentazione si svolge all’esterno della volontà del pubblico anche quan­do esso si identifica totalmente con essa, mentre, nel secondo caso, la rappresentanza funziona cioè come protesi permanente della volontà originaria del cittadino, anche se qualche volta questi non si identifica con essa. La prima si svolge sempre davanti al cit­tadino, la seconda, poiché c’è delega, può svolgersi in sua assenza. Il correlato della prima è il pubblico; il correlato della seconda è il cittadino.

Dunque, l’emergenza del potere mediatico come potere costituente della nuova democrazia del pubblico tende a forzare questa strada della riduzione dei cittadini a spettatori, a pubblico, a consumatori. Ed è qui che risiede il nocciolo centrale del pro­blema della transizione della democrazia rappresentativa verso la democrazia del pub­blico. La rappresentanza (politica) -essendo anche, come quella, differenza – non equi­vale, tuttavia, semplicemente a rappresentazione (8), nonostante in molte lingue (france­se, spagnolo o portoghese, per esempio: représentation, representación e representa­ção) non vi sia nemmeno differenza linguistica. La rappresentanza equivale ad un tra­sferimento di sovranità, all’assunzione cosciente del bisogno della differenza e della separazione, la rappresentazione equivale ad uno sforzo di annullamento della separa­zione o della differenza, anche se con altri mezzi. L’una sottolinea la separazione, l’al­tra cerca di annullarla (attraverso l’identificazione del pubblico con la rappresentazio­ne, l’adeguatezza tra contenuto e forma e la ri-presentazione del contenuto assente).

La rappresentanza (politica) non solo significa riconoscimento della differenza e della separazione, ma è proprio nell’atto di riconoscimento della separazione che viene fondata la legittimità della rappresentanza. Cioè mentre nella rappresentanza viene costituita la differenza in base ad una identità sostanziale (appartenenza allo stesso popolo) e, perciò, nell’ affermazione della differenza funzionale viene anche riconosciu­ta la sua piena legittimità, nella rappresentazione è la stessa differenza o separazione (tra contenuto assente e sua rappresentazione e tra attore e spettatore) che viene annul­lata, cercandosi anche la piena identificazione non solo tra rappresentazione e contenu­to, ma anche tra pubblico e rappresentazione. Mentre la prima parte dall’ identità sostanziale (del rappresentante con il popolo) per poi adottare la differenza come fun­zione centrale della democrazia (mandato non imperativo – differenza o separazione funzionale), la seconda parte dalla differenza o separazione – tra palcoscenico e pubbli­co o tra l’assenza deI contenuto e la sua rappresentazione – per poi adottare l’identità, o annullamento della differenza o separazione, come fine del processo (di rappresenta­zione), cioè sia come ri-presentazione del contenuto assente che come identificazione del pubblico con la rappresentazione (9).

Nella nuova democrazia del pubblico che emerge, spinta dalla forte presenza dei media sia come soggetti politici sia come spazio pubblico, si procede alla confusione tra rappresentazione e rappresentanza e tra pubblico e cittadinanza. Cioè laddove la differenza viene convertita in identità, con produzione di effetti strumentali sullo stes­so funzionamento della democrazia, specie trasformando la democrazia in uno spetta­colo in cerca di identità attraverso il consenso (applausi), dove i media (palcoscenico + régie + scenografia) svolgono il ruolo centrale.

Ciò che vorrei sottolineare è che il passaggio dalla democrazia rappresentativa alla democrazia dei pubblico, indotta dal doppio protagonismo politico dei media sia come soggetti politici informali che come nuovo spazio pubblico, produce profondi cambia­menti strutturali che possono cambiare la natura stessa della democrazia. Si intravede, in questo processo, l’emergenza di una democrazia diretta di nuovo tipo, cioè di tipo spettacolare, laddove la rappresentanza perde appunto quella sua specificità che la ren­deva diversa dalla rappresentazione e dove, allo stesso modo, la cittadinanza si conver­te in pubblicità proprio come la ragione si converte in pura opinione. Laddove il citta­dino diventa pubblico e consumatore nell’immenso mercato dell’audience (10).

6. Questa mutazione si deve, a mio parere, alIa forte irruzione dei media sia come soggetti politici che come nuovo spazio pubblico esclusivo, che ha fatto, quindi, diven­tare residuali i contenuti, considerato il rilievo dato alle forme della comunicazione in vista della promozione dell’identità nel consenso.

Non mi pare, così, che, come sostiene Minc, i media siano, nella gerarchia dei ter­mini della trinità su riferita, più un riflesso degli altri due – l’ opinione e il giudice – che un motore (1995, p. 76). Credo piuttosto il contrario, giacché i media hanno una fortis­sima capacità di configurazione dell’opinione pubblica, come ormai sembra dimostra­to dagli innumerevoli studi sugli effetti dei media, specie dall’ Agenda-setting o dalla Spirale del silenzio (11). O, come ha dimostrato l’importante ricerca di Joshua Meyrowitz sul ruolo dei media elettronici, nel profondo cambiamento della configurazione percet­tiva e cognitiva dei rapporti sociali e della distribuzione dei ruoli sociali. In effetti, con i media elettronici è venuta meno una percezione segmentata della tradizionale separa­zione dei ruoli sociali, sessuali, generazionali e politici, poiché questi media, facendo convergere verso uno stesso spazio o, come dice Meyrowitz, verso uno «stesso luogo», funzioni, ruoli e appartenenze diverse, «hanno favorito la confusione di molti ruoli sociali un tempo distinti», giacché, in effetti, «molte differenze che una volta si perce­pivano tra individui appartenenti a diversi “gruppi sociali”, a diversi stadi di socializ­zazione e a differenti livelli di autorità, erano sostenute dalla suddivisione degli indivi­dui in mondi di esperienza molto diversi» (Meyrowitz, 1985, p. 10) (12).

7. L’emergenza dei media sia come luogo unico che come diretti protagonisti poli­tici informali ha profonde conseguenze su tutto il tessuto sostanziale della democrazia. Innanzitutto, la riduzione del cittadino a spettatore, consumatore, pubblico, come abbia­mo visto. Poi, la presenza prorompente dei media nello spettacolo democratico, con forti effetti sul processo di conquista (o di perdita) dei consensi per il potere.

Sono già classici i casi nei quali i media, specie la televisione, sono stati decisivi per la conquista dei consensi in vista della conquista del potere politico: Collor de Mello, in Brasile, Ross Perot, negli USA, Berlusconi, in Italia. Qui, rilevanti sono gli effetti dei media sul voto. Per l’Italia, rispetto alle elezioni politiche deI 1994, Luca Ricolfi ha cal­colato che la televisione ha provocato lo spostamento di circa 4 milioni di voti, provo­cando la vittoria deI centro-destra (Ricolfi, 1994, p. 1039). Ross Perot è riuscito a otte­nere i suoi consistenti e inaspettati risultati elettorali in base a talk-show e spot televi­sivi. Collor de Mello è stato eletto grazie all’intervento massiccio della televisione di Roberto Marinho (Sartori, 1997, p. 79).

Ma altrettanto significativo è il «comportamento» dei media nei confronti dello stesso potere suffragato, a elezioni appena concluse. Cioè gli effetti sul dopo voto, la presenza di forti effetti d’interpolazione sia sui risultati elettorali che sui governi in formazione.

Ho condotto una ricerca sulle reazioni della stampa portoghese – su 16 pubblica­zioni di ambito nazionale: 9 quotidiani e 7 settimanali, tra l’11 e il 31 ottobre 1999 – ­alle elezioni politiche del1999 (10 ottobre) (13). Il Partito Socialista (PS) aveva vinto queste elezioni, con sistema elettorale proporzionale (e il metodo della media più alta di Hondt), con circa il 44% dei voti e 115 deputati sui 230 deI Parlamento. Il suo diretto avversario, il PSD, Partito Socialdemocratico, aveva otte­nuto il 32,3% dei voti e 81 deputati. Gli altri erano tre piccoli partiti (PCP, CDS/PP, BE) che avevano raccolto insieme circa il 20% e 34 deputati. L’astensione era salita daI 32,9% al 38,1 %. Tutti i partiti avevano perso, a causa deI forte incremento del­l’astensione, molti voti rispetto alle elezioni deI 1995: CDS/PP – 15,6%; PSD ­- 13,15%; PS – 7,68%; PCP – 4%14. II nuovo governo, insediato il 25 ottobre, era costi­tuito quasi integralmente da membri del governo precedente (solo tre su 18 ministri non ne avevano fatto parte).

L’analisi ha compreso tutti i commenti, apparsi sulle pubblicazioni suindicate, che riguardavano sia i risultati elettorali che la formazione del governo. Ha anche incluso i cosiddetti «barometri» delle pubblicazioni (chi sale, chi scende, chi vince, chi perde, ecc.). E, quindi, su 148 commenti sui risultati elettoraIi 77 davano un giudizio negati­vo sul risultato ottenuto dal PS (sconfitta, obiettivo mancato, amara vittoria, mezza vit­toria, mezzasconfitta, ecc., perché i1 PS non aveva ottenuto la maggioranza asso luta dei seggi). Cioè il 52% dei commenti giudicava negativamente il più importante risul­tato elettorale che il PS aveva ottenuto in tutta la sua storia. Se consideriamo, addirittu­ra, proprio i tre più importanti ed influenti giornali («Público», «Diário de Notícias» e il settimanaIe «Expresso») l’effetto d’interpolazione aumenta ancora d’intensità: su 49 commenti, il 65,3% giudicava i risultati come negativi, deludenti, fino a considerarli come una vera e propria sconfitta elettorale. I commenti piu radicaIi venivano dagli edi­torialisti più influenti.

D’altra parte, sulla formazione del governo, su 79 commenti 63 hanno giudicato negativamente un governo ancora in formazione o appena insediato e, comunque, prima che esso prendesse qualsiasi iniziativa o decisione. Cioè parliamo del 80% di commenti negativi su un governo che aveva appena ottenuto una schiacciante vittoria elettorale.

Ho potuto, quindi, accertare, in questa ricerca, un grave conflitto tra il principio elettivo, quale fondamento delIa democrazia, e l’opinione dominante che circolava nella stampa portoghese. Oltrettutto, gli stessi rilevamenti statistici dello stato dell’opinione pubblica confermavano sia i risultati elettorali che gli alti indici di gradimento del governo (13). Si è verificato ciò che chiamo effetto sistemico d’interpolazione dei media, ossia una forte distorsione nelIa rappresentazione mediatica dei fatti, contravvenendo gravemente allo schema deontologico di riferimento originario: i legittimi risultati del voto popolare vengono distorti mediante sovraccarico interpretativo della linearità numerica dei risultati e della legittimità costituzionale di libera forma­zione di un governo di maggioranza, avendo come risultato l’inizio di un doppio pro­cesso di strisciante e informale revoca del mandato popolare conferito e di annulIa­mento deI vecchio e stabile principio della legittimità di mandato. A ciò sopravviene un nuovo e più debole principio di legitimita fluttuante, cioè proprio una legittimità che depende sempre di più dai media e dai sondaggi che dal voto e dal cittadino. Si riduce, così, il principio elettivo a pura designazione formale dei rappresentanti, diventando residuale la vera legittimità di mandato, e si provoca una evidente «discra­sia della rappresentanza», ormai soggetta ad un permanente e logorante processo di revoca strisciante e informale del mandato (attraverso la critica permanente della legittimità, poi misurata dai sondaggi e, di nuovo, indebolita con la critica, in un logoramento mediatico a spirale del potere politico democratico).

8. a) Principio elettivo doppiamente indebolito, da un lato, dalla persuasione stru­mentale – a carico dei media – della volontà elettorale, prima (nella formazione della volontà) e dopo (nell’interpretazione dei risultati) il voto, e, dall’altro, dalla discra­sia progressiva della rappresentanza, mediante I’irruzione di un nuovo tipo di legit­timità, la legitimita fluttuante, suscitata dalla revoca strisciante del mandato; b) cre­scente privatizzazione delle funzioni sociali dello Stato, corrispondente alla crisi dello Stato sociale; e c) frammentazione della classe media tradizionale, diventata «Middle class», con i connotati che già abbiamo visto (vedasi Scalfari, 1994, dove egli cerca di spiegare strutturalmente e storicamente il caso Berlusconi). Tutto ciò avviene in un ambiente di crescente volatilizzazione dell’istanza politica sempre piu fagocitata dal sistema dei media e dai corrispettivi poteri, cioè sia dai poteri proprie­tari che dalle élites che circolano all’interno dei centri del potere mediatico e delle reti emittenti (radio, giomali, televisione). Ma quanto più si volatilizza l’istanza poli­tica e si destrutturano i vecchi collanti della democrazia rappresentativa – specie la classe media tradizionale, lo Stato sociale e i partiti organici – tanta più rilevanza acquistano i cosiddetti poteri fattuali -`non elettivi né portatori di specifica legittimi­tà politica – e, tra questi, specialmente, i poteri mediatici, ormai sempre più lontani dalla loro fonte di legittimità, cioè dal loro schema deontologico di riferimento, e in crescente fase di concentrazione, da Murdoch a Berlusconi.

Si direbbe che i poteri fattuali, davanti alla progressiva discrasia della rappre­sentanza, abbiano come strumento politico privilegiato proprio i media (dei quali possono essere anche proprietari) in modo tale da legittimare le loro pratiche e da condizionare contemporaneamente sia l’accesso al potere legittimo che il suo stes­so esercizio. In effetti, l’irruzione dei media nel campo politico come protagonisti ha cambiato non soltanto i modelli di promozione del consenso in vista dell’ottenimen­to del potere, ma soprattutto il modello stesso di legittimità. Sostengo, in effetti, che da una legittimità stabile siamo ormai passati ad una legittimità fluttuante, cioè per­manentemente condizionata dai media e dai sondaggi in modo tale da indurre quel­la che ho chiamato «discrasia della rappresentanza». Verifichiamo appunto che al raf­forzamento del potere dei media corrisponde sempre di più l’indebolimento del pote­re elettivo, senza che ciò si traduca in una crescita effettiva del potere della pubbli­ca opinione o del singolo cittadino. In effetti, i media sono oggi un potere dotato di soggettività auto-riflessa e auto-referenziale che rappresenta più se stesso (come potere e come istanza sociologica) che il pubblico che dovrebbe rappresentare. Il loro è oramai un discorso più prescrittivo che descrittivo o semplicemente narrati­vo. «In trent’anni, la prima pagina del NYT (New York Times) è passata dal 90 per cento di notizie di tipo “agenzia” (cioè di “informazione asciutta”) e 10 per cento di testo interpretativo o commentato alla proporzione inversa: 90 per cento di commen­to o analisi rispetto al 10 per cento di notizie in senso stretto» (Mesquita 2003). È il ritomo della dottrina della persuasione, solo che, questa volta, al servizio dei media stes­si o dei poteri che essi, il più delle volte, rappresentano, a cominciare dallo stesso potere aziendale privato che li gestisce.

9. È vero che una barriera formale e morale viene innalzata ogni volta che si paria di strumentalizzazione o di manipolazione dei media. Ma i casi sono troppi, le eviden­ze tante e lo stesso sistema operativo tale che non possiamo non dire che ormai vivia­mo una vera e propria contraddizione tra il funzionamento reale dei media e la loro fun­zione sociale originaria, tale in quanto poggiata su uno schema deontologico di riferi­mento che fonda la loro legittimità.

Un’analisi elementare dell’impianto e della strategia aziendale della maggior parte delle imprese e dei gruppi di comunicazione dimostrerà che cresce sempre di più il divario tra i modelli operativi e imprenditoriali dei media e la loro matrice normati­va, che decorre dalla loro funzione sociale originaria e dal corrispettivo codice deonto­logico e che fonda la speciale legittimità del loro operare rispetto a tutti gli altri setto­ri. Legittimità che ormai, vista la crisi della rappresentanza, viene presentata come equi­valente a quella che scaturisce dal principio elettivo, concedendo così al potere media­tico uno statuto pari, o addirittura superiore, a quello del potere politico.

Insomma, siamo davanti a mutazioni strutturali, nei rapporti tra i media e la demo­crazia, tali da prefigurare il passaggio a forme di democrazia di tipo post rappresenta­tivo, ma tali anche da preannunciare possibili sbocchi devianti rispetto al DNA della democrazia.

Certo, molte e importanti sono state le mutazioni globali che nel frattempo si sono verificate: cambiamenti strutturali nella geografia e nelIa geometria urbana (15); l’emer­genza della «middle class» come referente sociale fondamentale della società post indu­striale; la rivoluzione della microelettronica e delle comunicazioni in genere; l’intensi­ficazione dei flussi migratori internazionali; la fine della bipolarizzazione politica, stra­tegica e ideologica; la caduta delIe ideologie tradizionali; l’emergenza delIa scienza e della tecnica come forze produttive dominanti; la frantumazione dei grandi agglomera­ti sociali, specie della classe media tradizionale; la forte accelerazione delIa mobilità sociale.

Si potrebbe comunque parlare di uno speciale momento spartiacque a livello mon­diale: la Rivoluzione Europea del 1989. Il 1989 rappresenta, in effetti, il punto di svol­ta politico-sociale di una profonda mutazione che si stava dispiegando da qualche anno.

Si tratta di una mutazione talmente complessa da rendere molto difficile gerarchiz­zare i fattori del cambiamento. E tuttavia credo di aver individuato nella rivoluzione mediatica uno dei cardini della grande svolta: dal ruolo svolto dai mezzi di comunica­zione nello svolgimento della Rivoluzione del 1989 fino alla mondializzazione della comunicazione televisiva (il trionfo della CNN nelIa prima Guerra del Golfo) o al trionfo del sistema privato dei mezzi di comunicazione e corrispettiva imprenditoria­lizzazione.

10. In effetti, i media hanno svolto un ruolo di prim’ordine nelle mutazioni che si sono verificate nei sistemi sociali. E proprio questo ruolo li ha resi coscienti del potere che ormai detenevano all’interno della società, in particolare rispetto all’istanza politi­ca, in modo tale che da strumenti di comunicazione al servizio delle istanze tradiziona­li dell’azione politica sono diventati loro stessi diretti protagonisti politici. Ma è pro­prio questo cambiamento che suscita interrogativi dal punto di vista della legittimità: è conciliabile lo status di protagonisti politici con la funzione sociale originaria ed il cor­rispettivo schema deontologico di riferimento che ne fonda la legittimità? Di più: come si può conciliare l’esclusività strategica della lotta per l’«audience» con lo schema deontologico di riferimento? E ancora: il domínio totale – nel sistema operativo domi­nante dei media, specie in quelli che hanno adottato il modello tabloid – dello strumen­to nucleare di conquista dell’«audience», l’emozione indotta, è compatibile con la fun­zione sociale originaria dei media?

Io credo che le risposte non possano essere che negative. Cioè constatato il punto di svolta, verificato l’importante ruolo dei media nella svolta, concludiamo che la strada che stiamo percorrendo ci condurrà a forme devianti di democrazia (che molti identifi­cano con un populismo elettronico che si potrebbe «riempire» politicamente con conte­nuti neocorporativi) se non cambiamo direzione, cominciando dalla rivalutazione del­l’istanza elettiva e di tutti i meccanismi su cui poggia, arrivando a proporre come nuova utopia la vecchia legge kantiana della ragion pratica: agisci in modo tale che la massi­ma della tua volontà possa sempre valere allo stesso tempo come principio di una legi­slazione universale (Kant 1788, I, capo I, par. 7).

Note

(1) In questo saggio cerco di incrociare la teoria dei media con la teoria politica, riflettendo sugli effetti dei media sui meccanismi centrali della democrazia rappresentativa e sulle mutazioni strutturali che essi vi stanno provocando. Perciò dovró utilizzare dei concetti che mi permettano di addentrarmi meglio nei sofi­sticati meccanismi in mutazione. Mi appresto, poi, ad evidenziare e a definire quelli che, a mio parere, sono i più funzionali alI’analisi: 1. «effetto d’interpolazione» dei media, che può diventare «effetto sistemico d’interpolazione» (quando i media distorcono la linearità dei fatti mediante sovraccarico interpretativo); 2. «legittimità fluttuante» (per opposizione alla «legittimità di man­dato» conferita dal voto indirettamente a governo; la «legittimità fluttuante» diventa dominante e rispecchia l’immagine del governo secondo i media e i risultati dei regolari sondaggi d’opinione); 3. «revoca striscian­te e informale del mandato» (rappresenta l’intervento regolare dei media e dei sondaggi d’opinione con effetti sul logoramento dell’immagine del governo); 4. «schema normativo di riferimento» (codi­ce deontologico d’origine anglosassone, dove l’imparzialità, l’obiettività, la neutralità, l’equilibrio, la rilevanza e il plu­ralismo sono i principi portanti); 5. «discrasia della rappresentanza» (cattiva mescolanza, dove il potere poli­tico diventa debole quando la legittimità fluttuante si sovrappone alla legittimità di mandato).
(2) Quanto detto da Abruzzese, in «Elogio deI tempo futuro. Perché ha vinto Berlusconi» (1994, p. 14), rispetto al grande cambiamento verificatosi in Italia neI 1994, con la vittoria di Silvio Berlusconi nelle elezioni deI 27 marzo, rientra, a mio parere, neI processo di mutazione della matrice della democrazia rappresentativa ad opera dei media: «Quando un partito nasce con la rapidità di una catastrofe, quando uno schieramento prende il potere nei modi immediati e inattesi di una rivoluzione, è iI caso di riflette­re sulla solidità delIe mura che cingono la città da difendere e sull’abilità dei guardiani a cui erano affi­date le porte di accesso alle piazze, alle strade, ai mercati e alle sale del governo. È iI caso di ripensare anche alla qualità stessa della città che abitiamo, che crediamo di conoscere. Forse ci potremmo accor­gere che la nostra città è mutata radicalmente e che non il vincitore ma lo sconfitto rischia di essere recepito come un estraneo, uno che viene da fuori, che ha vissuto e, peggio ancora, continua a vivere all’esterno delle sue mura».
(3) «Siccome recettività, capacità cognitiva e attenzione del pubblico», dice Habermas, «sono risorse straordinariamente scarse – per la cui conquista le reti televisive si danno quotidianamente battaglia – la pre­sentazione di notizie e commenti deve quasi sempre sottostare alle strategie di mercato e alle “ricette” degli esperti di pubblicità (italico mio). Personalizzare i problemi oggettivi, mescolare informazione e divertimento, elaborare i dati in maniera episodica, frammentare i contesti: questi sono i fattori incremen­tanti la sindrome di “spoliticizzazione” che colpisce la comunicazione pubblica» (1992, p. 447).
(4) Non aveva ragione, quindi, Clinton quando, nel 1993, invitato a cena dalla Radio and Televison Correspondents Association fece una affermazione stupefacente che lasció i giornalisti alquanto arrabbiati: «Sapete perché posso ignorarvi alle conferenze stampa? Perehé Larry King mi ha liberato da voi, mettendo­mi in contatto direttamente con il popolo americano» (Tonello, 1999, p. 40). In effetti, Clinton parla diretta­mente al popolo, ma da un pulpito, quello di Lany King, di una importante cattedrale mediatica, la CNN.
(5) La letteratura sul tema è ormai sterminata, sia riguardo al ’94 che alle altre elezioni politiche. Comunque, su Forza ltalia è molto interessante il lavoro di Poli (2001).
(6) Dirompente fu davvero l’alleanza tra i media e i giudici di «Mani pulite» soprattutto quando venivano trasmessi direttamente in TV i famosi processi, con tanto di umiliazione pubblica degli antichi dirigenti politici. Dirompente è stata, in Portogallo, l’alleanza tra il potere giudiziario e i media nella gestione del processo di pedofilia e che ha visto imputati importanti personaggi del mondo politico, diplomatico e dello spettacolo, laddove, tutti i giorni, i brani processuali coperti dal «secreto istruttorio» venivano pub­blicati a sostegno delle rispettive strategie.
(7) Vedasi, rispetto alla «middle class», ciò che dice la Wikipedia: «In Europe and the United States, indu­strialization eventually caused the middle class to swell at the expense of the lower, so that by the middle of the 20″ century it constituted a majority. Now, the label is often swollen to cover the bulk of society and its norms. As the swollen middle class lost its distinctive usefulness as a label, observers invented sub­labels: we often detected in contemporary societies at least an “upper middle class” and a “lower middle class”. Modern political economy considers a large middle c1ass to be a beneficial, stabilizing influence on society, because it has neither the explosive revolutionary tendencies of lower c1ass, nor the stultifying greedy tendencies of the upper class» (http://en.wikipedia.org.lwiki/Middle-class). Oppure la Encarta della Microsoft: «Among the United Kingdom population, the upper middle class (such as senior managers and professionals) forms around 10 per cent; the true middIe c1ass (such as teachers and administrators) around 20 per cent; and the lower middle class, traditionally known as the petit bourgeoisie (small-business peo­ple junior office workers), 20 per cento. Combining all of these sectors, this makes the middle class the lar­gest class in British society» (Microsoft Encarta 98 Encyclopedia. 1993-1997 Microsoft Corporation).
(8) Il concetto di “rappresentazione” ha molti sensi: spettacolo, atto conoscitivo, descrizione matemati­ca. “Rappresentanza” ha un senso giuridico oppure un senso politico, nella democrazia rappresentativa. In queste riflessioni mi riferisco ai due primi sensi di “rappresentazione” e all’ ultimo senso di “rappresentan­za”, cioè al mandato non imperativo.
(9) Per indurre distanza critica rispetto all’eccesso di identificazione del pubblico con la rappresentazio­ne, Brecht ha evidenziato, nel teatro, un «effetto di straniamento» (Entfremdungseffekt) che provoca appun­to differenza critica nello spettatore: «si tendeva a far recitare gli attori in maniera da rendere impossibile allo spettatore di immedesimarsi sentimentalmente con i personaggi del dramma. L’accettazione o il rifiu­to di ciò che questi facevano o dicevano doveva avvenire nella sfera cosciente dello spettatore, e non, come era avvenuto finora, nel suo inconscio» (Brecht 1937-1956, p. 103).
(10) Lo stesso Popper, che critica radicalmente lo stato della cultura televisiva, paradossalmente, ma non troppo, nella sua Lisbon Lecture, del 1987, nella Fondazione Calouste Gulbenkian, sostiene una teoria della democrazia che si avvicina proprio a questo modello della democrazia del pubblico, dove il cittadi­no ha soltanto il compito di «bocciare» i governi, determinando, attraverso una capacità meramente nega­tiva, la regolare sostituzione dei governi all’interno di un processo di circolazione interna delle élites (veda­si la mia critica a Popper in Santos, 1998, pp. 32-38).
(11) Ma è vero che sulla teoria degli effetti i teorici sono molto divisi tra l’ipotesi minimalista (effetti limitati) e l’ipotesi massimalista (powerful media). Tra gli altri, vedasi: Wolf (1992); Bentivegna (a cura di) (1994); Bryant e Zillmann (a cura di) (1994); Tonello (1999, pp. 203-223).
(12) Ma si veda anche la critica di Habermas: «Ma questa abolizione dei confini va di pari passo con la moltiplicazione dei ruoli contemporaneamente specificati, con la pluralizzazione delle forme di vita e l’in­dividualizzazione dei progetti di vita. Lo sradicamento è accompagnato dalla costruzione di particolari appartenenze e provenienze comunitarie, il livellamento dall’impotenza di fronte alla complessità sistemi­ca non compresa. Si tratta piuttosto di sviluppi complementari intrecciati l’uno con l’altro. Così, i mezzi di comunicazione di massa producono effetti contrastanti anche in altre dimensioni. Molte cose fanno pensa­re che il potenziale democratico di una sfera pubblica, la cui infrastruttura reca l’impronta delle crescenti pressioni selettive della comunicazione elettronica di massa, sia ambivalente» (1962, XLII-XLIII).
(13) I risultati presentati in «La scienza è una curiosità» (Bari, Manni, 2004) erano ancora provvisori. Vedasi ora Santos (2009, pp. 259-261).
(14) Il partito più colpito è stato il CDS/PP (il quarto partito tra i cinque con presenza parlamentare, non considerando i Verdi, giacché questi si presentano sempre in coalizione con il PCP), con meno il 15,6% dei voti rispetto alle elezioni politiche del 1995. Ma ciò non ha impedito alla giornalista del «Público» – uno dei più influenti quotidiani portoghesi – Eunice Lourenço di dire (11/10/99, pag. 6) che il leader di que­sto partito di destra, Paulo Portas, fu il vero vincitore di queste elezioni («Portas pôde cantar vitória»; «con­tudo, a noite de ontem foi de vitória para Portas»; «e a noite acabou em alta, com Portas a fazer uma decla­ração honesta, em que não embandeirou vitória, e se alguém podia fazê-lo era ele»).
(15) Per esempio, qualcuno spiega, almeno in parte, come Lewin (1988), l’irruzione del fenomeno della Perestroika con i profondi cambiamenti di questo tipo che si sono verificati negli ultimi decenni dell’URSS.

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[“La scienza e una curiosità”. Scritti in onore di Umberto Cerroni a cura di Cosimo Perrotta,
Manni Editori, San Cesario di Lecce, 2004, con interventi di MANLIO MAGGI, FRANCESCO MARTELLONI, ORESTE MASSARI, ANNA MARIA NASSISI, ROSALBA NESTORE, ALESSANDRO ORSINI, COSIMO PERROTTA, CESARE PINELLI, GRAZIELLA PISANÓ, MICHELE PROSPERO, CESARE SALVI, ALFREDO SENSALES, CELESTINO SPADA, GHEORGHE LENCAN STOICA, EGIDIO ZACHEO, RICCARDO CAPORALI, ANDREA CERRONI, AQUILES CHIHU AMPARÁN, JOÃo DE ALMEIDA SANTOS, FABIO DE NARDlS, VITANTONIO GIOIA.]

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