Il potere mediatico e la crisi della democrazia

Para Umberto Cerroni
Um Mestre e um Amigo

1. La democrazia rappresentativa (1) è arrivata ad un punto di svolta (2). Uno dei suoi elementi strutturanti, la differenza tra rappresentanza e rappresentato, tra palazzo e piazza, tra società politica e società civile, tra Stato e società, si sta logorando sempre di piu man mano che il potere mediatico irrompe come centro soggettivo di potere auto-rifles­sivo e auto-referenziale, avanzando pretese di occupazione esclusiva deI luogo della differenza. Questo potere, quale modo di produzione industriale di infotainment, si interpone sempre di più tra la rappresentanza politica e il cittadino, assumendosi esso stesso come «rappresentanza organica», ossia come vera e propria società civile di secondo grado. Esso affonda tanto più nello stesso sistema del potere politico quanto più elevata è la sua posizione nella gerarchia dei poteri civili e quanto più esclusivo diventa come spazio pubblico, escludendo o oscurando le altre forme di interazione comunicativa. Esso svolge allo stesso tempo funzioni di rappresentazione e funzioni di estensione organica della società civile, assumendo sempre di più le proprie funzioni come veri e propri imperativi sistemici. Così la rappresentazione si trasmuta in rappre­sentanza (politica) informale, laddove esso diventa, da un lato, spazio pubblico esc1u­sivo, gestito direttamente dai suoi agenti, secondo i propri criteri, le proprie regole ed i propri interessi in base a esigenze funzionali di tipo sistemico, e dall’altro, et pour cause, diretto protagonista politico.

Non è un caso che Habermas, nella Prefazione alla nuova edizione del 1990 di «Strukturwandel der Öffentlichkeit», si ponga un problema che egli giudica non risolu­bile «senza un considerevole sforzo empirico: se e in che misura una sfera pubblica dominata dai mezzi di comunicazione di massa offre agli esponenti della società civile la possibilità di entrare in concorrenza, con buone prospettive, con gli invasori dell’ eco­nomia e della politica e, dunque, di modificare, liberare dalle barriere e filtrare critica­mente lo spettro dei valori, dei temi e dei motivi canalizzati dall’influenzamento ester­no» (Habermas, 1962, XLI). Habermas, si sa, punta ad un concetto discorsivo della democrazia (Habermas, 1996, pp. 235-259), dove «l’opinione pubblica viene elaborata in potere comunicativo dalle procedure democratiche», cioè laddove il suo è un potere indiretto di indirizzo sul potere amministrativo, ma sopratutto un potere libero sia dal comando amministrativo sia dal comando economico. E tuttavia egli non confonde potere dei media con potere comunicativo giacché mentre, da una parte, intravede la presenza di imperativi di tipo sistemico nei media stessi (Habermas, 1992, pp. 435,442, 444), dall’altra, rinvia le interazioni comunicative informali ad una sfera più ampia, la «società civile», così come la definisce in «Faktizität und Geltung», del ’92, «il suo núcleo istituzionale è invece costituito dalle alleanze e associazioni volontarie – di tipo non sta­tale né económico – attraverso cui le strutture comunicative della sfera pubblica si ancorano alla componente del mondo di vita relativa alla società. La società civile è compo­sta da quelle associazioni, organizzazioni e movimenti che più o meno spontaneamen­te intercettano e intensificano la risonanza suscitata nelle sfere private di vita dalle situazioni sociali problematiche, per poi trasmettere questa risonanza – amplificata – alla sfera pubblica politica. Il nucleo della società civile è costituito da una rete associativa che istituzionalizza […] discorsi miranti a risolvere questioni d’interesse generale». «Certo», aggiunge subito Habermas, «queste associazioni non sono l’elemento preva­lente in una sfera pubblica dominata da mass media e grandi agenzie, tenuta sotto osser­vazione da inchieste di mercato e sondaggi d’opinione, irretita dalla pubblicità e dalla manipolazione di partiti politici e gruppi d’interesse». E «tuttavia», conclude, «sono queste associazioni a formare il sostrato organizzativo di un universale “pubblico di cit­tadini” emergente per così dire fuori dalla sfera privata. Questi cittadini cercano sia di dare interpretazioni pubbliche ai loro interessi e alle loro esperienze sociali sia d’in­fluenzare la formazione istituzionalizzata dell’opinione e della volontà» (Habermas, 1992, p. 435; 1962, XXXIX). Cioè la politica deliberativa cerca di sfuggire ad una colonizzazione sistemica delle interazioni comunicative sia da parte del potere ammi­nistrativo e del potere economico sia da parte dello stesso potere mediatico, anche per­ché «pur essendo noi relativamente informati sull’impatto e sulle modalità operative dei mass media, nonché sulla divisione di competenze tra il pubblico e una pluralità di atto­ri, e pur potendo anche ragionevolmente individuare chi dispone del potere dei media», tuttavia, «ciò che ancora non vediamo chiaramente è il modo in cui i mass media inter­vengono nella complicata circolazione comunicativa della sfera pubblica politica» (1992, p. 447), così come non vediamo il suo potere «sufficientemente disciplinato dagli standard della professione» (1992, p. 446). La circolazione comunicativa è tal­mente ampia da non poter restare confinata al potere mediatico, nonostante il suo forte potere d’agenda (1992, p. 452). Perciò, Habermas sostiene che «i mass media devono intendersi come “mandatari” d’un pubblico illuminato, la cui capacità di apprendimen­to e di critica essi -nello stesso tempo – presuppongono, pretendono e rafforzano. Analogamente all’apparato giudiziario, anche i mass media devono tutelare la loro autonomia da attori politici e da attori sociali» (1992, pp. 448-449). Ma è proprio qui che si verifica, oggi, da parte dei media, una vera e propria inversione dei valori propo­sti da Habermas, giacché essi stessi vengono colonizzati dall’agire razionale orientato al successo (zweckrational) importato dal sottosistema economico, cioè non agendo più prevalentemente in vista dell’intesa, bensì in vista del successo, razionalmente rispetto allo scopo, cioè in vista dell’ audience (e della pubblicità) (3).

La finanziarizzazione, l’imprenditorializzazione e le tendenze alla concentrazione che si stanno verificando nel potere mediatico fanno sì che venga meno la pretesa di promuovere un concetto discorsivo di democrazia dove la legittimità poggi su pubbli­ca argomentazione fondata su pretese di validità universale, poggi sui fondamenti del­l’agire orientato all’intesa, così come viene abbondantemente teorizzato da Habermas nella sua «Theorie des kommunikativen Handelns», del lontano ’81, oppure, potremmo anche dire, come già viene schizzata nello stesso imperativo categorico di Kant.

D’altra parte, come dice lo stesso Habermas, «quanto più ora il pubblico unificato dai mass media ricomprende tutti gli appartenenti d’una società nazionale, o addirittu­ra tutti quelli che vivono in una certa epoca, tanto più nettamente i ruoli degli attori che salgono sulle arene si contrappongono ai ruoli degli spettatori in galleria» (1992, p. 444). Ed è proprio nel potere di controllo delle condizioni generali e specifiche di accesso degli attori a questi ruoli che, da una parte, risiede il potere dei media e la sua capacità di fagocitare l’intero spazio pubblico e, dall’altra, si concentrano le tendenze alla contrapposizione tra i ruoli dei cittadini e quelli dei vari attori che hanno la possi­bilità di accedere allo spazio mediatico, generando così «un potere dei media che, impiegato manipolativamente, ha tolto al principio della pubblicità la sua innocenza». «La sfera pubblica pre-strutturata e insieme dominata dai mezzi di comunicazione di massa», dice Habermas, «si è trasformata in una arena depotenziata, nella quale i temi e i contributi si contendono non solo l’influsso, bensì anche un governo, le cui inten­zioni strategiche sono quanto possibile occultate, dai flussi di comunicazione in grado di influenzare il comportamento». Per questo, Habermas distingue chiaramente tra «fun­zioni critiche dei processi di comunicazione autogovernati, sostenuti da istituzioni deboli, ramificati anche orizzontalmente, inclusivi e più o meno discorsivi» e «funzio­ni di influenzamento delle decisioni di consumatori, elettori e clienti da parte delle organizzazioni che intervengono in una sfera pubblica dei mezzi di comunicazione di massa per mobilitare potere d’acquisto, devozione o buona condotta» (1962, XXII­-XXIII). L’agire orientato all’intesa, secondo le modalità dell’agire comunicativo, è, per Habermas, cosa ben diversa dell’agire razionalmente rispetto allo scopo, in vista del successo, per cui la comunicazione pubblica non può essere ridotta alIa logica dell’agi­re strumentale e della persuasione strumentale del pubblico.

2. E, tuttavia, la rappresentanza (politica) informale, ma anche formale, a carico degli attori mediatici di qualunque provenienza, ma di sicura influenza personale o organizzazionale, si presenta regolarmente davanti all’ assemblea del popolo riunita nel nuovo spazio pubblico elettronico, cioè davanti allo schermo televisivo, cercando d’in­fluenzare, d’accordo con i propri interessi, decisioni di «consumatori, elettori e clien­ti». Lo spazio dei media emerge così come lo spazio verso il quale convergono sia la rappresentanza formale o informale che il popolo rappresentato, sia come consumato­re/cliente sia come pubblico/elettore.

La personalizzazione della politica – istituzionale e partitica – emerge con significa­to istituzionale (Habermas, 1992, p. 447) quando il sistema mediatico diventa un siste­ma a dominante elettronica, istantaneo e universale, capillare, onnivoro e (post)indu­striale, con la capacità cioè di ri-produrre elettronicamente il reale trasformandone le regole, ridisegnando nuovi rapporti e oscurando definitivamente vecchi steccati. L’ opera di Meyrowitz, «No sense of place. The impact of electronic media on social behaviour» (Meyrowitz, 1985), dimostra proprio questo: cioè la percezione che il cittadi­no ha del suo stesso ruolo sociale rispetto ad altri ruoli, la percezione dello spazio fisi­co e sociale che occupa rispetto ai vecchi steccati sociali e il suo stesso rapporto cogni­tivo con la totalità dell’ambiente che lo avvolge vengono radicalmente cambiati con l’avvento dei media elettronici, specie attraverso un vero e proprio oscuramento dei confini presenti nelIe interazioni proprie del mondo dell vita e irriducibili alla conver­sione elettronica (vedasi l’adesione, ma anche la critica di Habermas, 1962, pp. XLI-XLII). La personalizzazione, riconosciuta come caratteristica discriminante deI nuovo approc­cio politico alIo spazio pubblico elettronico, viene ormai accompagnata da una vera e propria rivoluzione nel nuovo rapporto percettivo e cognitivo dei cittadino (pubblico-­spettatore) con i propri ambiti situazionali e con i diversi ruoli sociali, specie se para­gonato alIa vecchia rappresentazione empirica (pre-elettronica) dei propri ruoli ed ambiti situazionali. Cioè cambia il rapporto tra politica e cittadino, emergendo, sì, la personalizzazione, ma all’interno di un profondo cambiamento nelIa percezione delle strutture relazionali che determinano i rapporti percettivi e cognitivi con il reale, dal­l’auto-referenzialità all’etero-referenzialità (Habermas, 1992, p. 447; 1962, XLI-XLII).

3. Ormai, niente di ciò che è umano (dal sociale all’intimo) è estraneo al sistema mediatico. E, quindi, tutto ciò che assume la forma di prodotto mediatico ha un viso o, almeno, una forma visuale. II trionfo della cultura visuale accompagna il trionfo del sistema mediatico. Entrambi intaccano radicalmente la cultura della differenza – la loro e una cultura omologatrice (Habermas, 1992, p. 444) – provocando una specie di tra­smutazione della natura stessa della democrazia rappresentativa verso una specie di neodemocrazia diretta. Cioè, una democrazia diretta debole: da un lato, per la progres­siva affermazione di potere di queste strutture organiche intermedie – i ceti sociali diret­tamente e produttivamente coinvolti nel potere mediatico e i poteri proprietari che lo comandano, che costituiscono quelIa che ho chiamato rappresentanza organica, di cui élites manageriali e giornalistiche e infotainers – con forte capacità politica di revoca informale e strisciante dei mandato, cambiando la natura stessa del mandato non impe­rativo, discriminante fondamentale della democrazia rappresentativa; dall’altro, per la personalizzazione del mandato, laddove un rapporto diretto con il popolo è diventato possibile proprio grazie a questo potere (4).

In effetti, l’emergenza di un indubitabile e crescente protagonismo politico dei media, il crescente affermarsi di un importante ceto sociale connesso direttamente con i media, la crescente personalizzazione della comunicazione politica, il profondo cam­biamento nella percezione delIe strutture che determinano il rapporto percettivo e cognitivo del soggetto con il reale (soggettivo, oggettivo e sociale), il cambiamento della natura di uno spazio pubblico che è passato dal luogo fisico all’ assenza di luogo (dal luogo alla rete o al luogo virtuale), la profonda mutazione delIe categorie percet­tive umane -giungendo perfino alle stesse strutture percettive e cognitive- ad opera delIe sofisticate protesi tecnologiche, tutto ciò sta provocando profonde mutazioni negli stessi meccanismi centrali della democrazia rappresentativa.

Queste trasformazioni si sono verificate in un contesto più ampio, cioè nel contesto di profondi cambiamenti sociali, specie con l’emergenza della «middle class» come grande centro trasversale a tutta la società post industriale, ormai non più definita attra­verso le grandi «cleavages», le grandi fratture sociali, o le sostanziali appartenenze iden­titarie, bensì attraverso criteri di tipo sovrastrutturale (Scalfari, 1994). Ma anche in un contesto di finanziarizzazione e managerializzazione dell’economia, di imprenditorializ­zazione e di generalizzazione dei settore privato della comunicazione. Inoltre, tutto ciò si è verificato in un mondo non più strategicamente, politicamente e ideologicamente bipolare, dove non vige più una logica antagonistica che sovradetermini il funzionamen­to delIe società. Cioè laddove alla caduta delle ideologie politiche ha corrisposto l’emer­genza di nuovi protagonismi fino allora marginali perché strumentali alIa logica bipola­re del confronto ideologico. E nuovo fu davvero il forte protagonismo dei media. L’Italia del dopo 1989 è stata un esempio davvero chiarificatore. In effetti, il 1994 ha rappresen­tato il trionfo della civiltà mediatica sulla vecchia civiltà delle ideologie politiche e par­titiche (Abruzzese, 1994; Morcellini, 1994, 1995; Statera, 1995; Mancini, Mazzoleni, 1995; Bentivegna, 1995). Trionfo che qualcuno ha osannato come un «Elogio del Tempo Nuovo» (Abruzzese, 1994; ma vedasi anche Abruzzese, Miconi, 1999).

Oggi, i media, assieme a tutti i saperi e mezzi tecnico-scientifici e tecnologici, sia di rilevazione dello stato delI’opinione pubblica e dei diversi mercati (sondaggi e ricerche di mercato) sia di intervento simbolico su di essi (comunicazione e marketing), svolgo­no un ruolo talmente potente che si parla ormai di democrazia del pubblico, di demo­crazia dell’opinione o di democrazia post-rappresentativa. Un’analisi deI processo che nel 1994 condusse Silvio Berlusconi al potere ci può dare un esempio abbastanza evi­dente – quasi di tipo laboratoriale – del modo come tutto ciò possa funzionare in piena convergenza verso la conquista del consenso e la presa del potere (5).

4. Per evidenziare il senso di questo «Tempo nuovo», di questa profonda mutazione che sta avvenendo sotto i nostri occhi, Alain Minc, in L ‘ivresse démocratique, parIa addirittura dell’emergenza di «una nuova santa trinità»: «una trinità si spegne, fonda­mento della democrazia rappresentativa; un’altra entra in scena: il giudice, i media, l’opinione» (Minc, 1995, p. 76). La vecchia trinità di cui parla Minc era composta dalla democrazia rappresentativa, dallo Stato Sociale e dalla classe media. La nuova, dai media e dall’ opinione, oltre che dal giudice. Si tratta, dunque, di un cambiamento sostanziale, laddove la preminenza del principio elettivo e del mandato non imperati­vo, dei beni pubblici e di una base sociale di rango intermedio e stabile cede di fronte all’irruzione del rapporto dirompente tra media e pubblica opinione, connesso, sempre di più, anche al potere giudiziario (6).

D’altra parte, questo rapporto si rifà sempre di più ad una classe emergente di nuovo tipo, la cosiddetta «middle class», che si identifica con quel grande ceto sociale interme­dio definito, ormai, di più attraverso criteri di consumo, stili di vita e status sociale che attraverso le grandi fratture sociali, le identità sostanziali di appartenenza e le Weltanschauungen filosoficamente e ideologicamente elaborate. Una classe emergente che si identifica più come pubblico che come cittadinanza, più come consumatrice o spet­tatrice che come produttrice, più come insieme numerico e disgregato di individui, sin­goli e passivi fruitori, che come insieme organico, comunità attiva e partecipe (7). Una clas­se che, quindi, si identifica con il grande centro trasversale della società, anonimo, noma­de, flessibile, culturalmente precario (Scalfari, 1994). Questa «middle class» costituisce, d’altronde, il vero punto sociale di riferimento dei mass media: come pubblico e come moltitudine solitaria che vive in solitudine multipla (Virilio, 1993, p. 17). Essa è il prodot­to più specificamente sociale della società post industriale e, nella sua estesa e poco com­prensiva – proprio perché «middle class» – dimensione generica, corrisponde alle stesse categorie di pubblico a cui parlano i grandi mass media, specialmente la televisione. Cioè la «middle class» abita lo stesso spazio pubblico degli spettatori televisivi, diventando il grande punto di riferimento delle industrie culturali e, per ciò, anche dei mass media.

5. Tra il concetto di pubblico e quello di cittadinanza c’è un divario incolmabile che non si puó cancellare. Lo spazio pubblico democratico non può corrispondere ad una platea teatrale o televisiva dove si cerca permanentemente di promuovere l’identità di tutto ciò che sta oltre la differenza tecnica tra attore e spettatore, tra élites artistiche e pubblico. Cioè non si può convertire il concetto di cittadinanza nel concetto di pubbli­co senza scivolare verso concezioni strumentali della democrazia stessa, laddove il pro­cesso di decision-making politico sarebbe riservato a delle élites separate ed esclusive che si auto-propongono regolarmente (nelle elezioni) come offerta politica (di persona­le politico) ad un pubblico, altrettanto separato, come semplice spettatore e consuma­tore del prodotto offerto, come se si trattasse di un mero rapporto di consumo, dove la differenza risiede nel rapporto di produzione e l’identità nel rapporto di consumo. Cioè la differenza o separazione del palcoscenico e degli attori dal pubblico non equivale, come vedremo, a quella separazione o differenza tra rappresentanza e popolo, nono­stante le somiglianze. Nel primo caso, non c’è delega e, quindi, la sovranità resta con il cittadino, potendo egli esercitarla ad ogni momento della rappresentazione; gli atto­ri non agiscono in suo nome, bensì in nome dell’arte, dell’autore e dei personaggi stes­si. Cioè la rappresentazione si svolge all’esterno della volontà del pubblico anche quan­do esso si identifica totalmente con essa, mentre, nel secondo caso, la rappresentanza funziona cioè come protesi permanente della volontà originaria del cittadino, anche se qualche volta questi non si identifica con essa. La prima si svolge sempre davanti al cit­tadino, la seconda, poiché c’è delega, può svolgersi in sua assenza. Il correlato della prima è il pubblico; il correlato della seconda è il cittadino.

Dunque, l’emergenza del potere mediatico come potere costituente della nuova democrazia del pubblico tende a forzare questa strada della riduzione dei cittadini a spettatori, a pubblico, a consumatori. Ed è qui che risiede il nocciolo centrale del pro­blema della transizione della democrazia rappresentativa verso la democrazia del pub­blico. La rappresentanza (politica) -essendo anche, come quella, differenza – non equi­vale, tuttavia, semplicemente a rappresentazione (8), nonostante in molte lingue (france­se, spagnolo o portoghese, per esempio: représentation, representación e representa­ção) non vi sia nemmeno differenza linguistica. La rappresentanza equivale ad un tra­sferimento di sovranità, all’assunzione cosciente del bisogno della differenza e della separazione, la rappresentazione equivale ad uno sforzo di annullamento della separa­zione o della differenza, anche se con altri mezzi. L’una sottolinea la separazione, l’al­tra cerca di annullarla (attraverso l’identificazione del pubblico con la rappresentazio­ne, l’adeguatezza tra contenuto e forma e la ri-presentazione del contenuto assente).

La rappresentanza (politica) non solo significa riconoscimento della differenza e della separazione, ma è proprio nell’atto di riconoscimento della separazione che viene fondata la legittimità della rappresentanza. Cioè mentre nella rappresentanza viene costituita la differenza in base ad una identità sostanziale (appartenenza allo stesso popolo) e, perciò, nell’ affermazione della differenza funzionale viene anche riconosciu­ta la sua piena legittimità, nella rappresentazione è la stessa differenza o separazione (tra contenuto assente e sua rappresentazione e tra attore e spettatore) che viene annul­lata, cercandosi anche la piena identificazione non solo tra rappresentazione e contenu­to, ma anche tra pubblico e rappresentazione. Mentre la prima parte dall’ identità sostanziale (del rappresentante con il popolo) per poi adottare la differenza come fun­zione centrale della democrazia (mandato non imperativo – differenza o separazione funzionale), la seconda parte dalla differenza o separazione – tra palcoscenico e pubbli­co o tra l’assenza deI contenuto e la sua rappresentazione – per poi adottare l’identità, o annullamento della differenza o separazione, come fine del processo (di rappresenta­zione), cioè sia come ri-presentazione del contenuto assente che come identificazione del pubblico con la rappresentazione (9).

Nella nuova democrazia del pubblico che emerge, spinta dalla forte presenza dei media sia come soggetti politici sia come spazio pubblico, si procede alla confusione tra rappresentazione e rappresentanza e tra pubblico e cittadinanza. Cioè laddove la differenza viene convertita in identità, con produzione di effetti strumentali sullo stes­so funzionamento della democrazia, specie trasformando la democrazia in uno spetta­colo in cerca di identità attraverso il consenso (applausi), dove i media (palcoscenico + régie + scenografia) svolgono il ruolo centrale.

Ciò che vorrei sottolineare è che il passaggio dalla democrazia rappresentativa alla democrazia dei pubblico, indotta dal doppio protagonismo politico dei media sia come soggetti politici informali che come nuovo spazio pubblico, produce profondi cambia­menti strutturali che possono cambiare la natura stessa della democrazia. Si intravede, in questo processo, l’emergenza di una democrazia diretta di nuovo tipo, cioè di tipo spettacolare, laddove la rappresentanza perde appunto quella sua specificità che la ren­deva diversa dalla rappresentazione e dove, allo stesso modo, la cittadinanza si conver­te in pubblicità proprio come la ragione si converte in pura opinione. Laddove il citta­dino diventa pubblico e consumatore nell’immenso mercato dell’audience (10).

6. Questa mutazione si deve, a mio parere, alIa forte irruzione dei media sia come soggetti politici che come nuovo spazio pubblico esclusivo, che ha fatto, quindi, diven­tare residuali i contenuti, considerato il rilievo dato alle forme della comunicazione in vista della promozione dell’identità nel consenso.

Non mi pare, così, che, come sostiene Minc, i media siano, nella gerarchia dei ter­mini della trinità su riferita, più un riflesso degli altri due – l’ opinione e il giudice – che un motore (1995, p. 76). Credo piuttosto il contrario, giacché i media hanno una fortis­sima capacità di configurazione dell’opinione pubblica, come ormai sembra dimostra­to dagli innumerevoli studi sugli effetti dei media, specie dall’ Agenda-setting o dalla Spirale del silenzio (11). O, come ha dimostrato l’importante ricerca di Joshua Meyrowitz sul ruolo dei media elettronici, nel profondo cambiamento della configurazione percet­tiva e cognitiva dei rapporti sociali e della distribuzione dei ruoli sociali. In effetti, con i media elettronici è venuta meno una percezione segmentata della tradizionale separa­zione dei ruoli sociali, sessuali, generazionali e politici, poiché questi media, facendo convergere verso uno stesso spazio o, come dice Meyrowitz, verso uno «stesso luogo», funzioni, ruoli e appartenenze diverse, «hanno favorito la confusione di molti ruoli sociali un tempo distinti», giacché, in effetti, «molte differenze che una volta si perce­pivano tra individui appartenenti a diversi “gruppi sociali”, a diversi stadi di socializ­zazione e a differenti livelli di autorità, erano sostenute dalla suddivisione degli indivi­dui in mondi di esperienza molto diversi» (Meyrowitz, 1985, p. 10) (12).

7. L’emergenza dei media sia come luogo unico che come diretti protagonisti poli­tici informali ha profonde conseguenze su tutto il tessuto sostanziale della democrazia. Innanzitutto, la riduzione del cittadino a spettatore, consumatore, pubblico, come abbia­mo visto. Poi, la presenza prorompente dei media nello spettacolo democratico, con forti effetti sul processo di conquista (o di perdita) dei consensi per il potere.

Sono già classici i casi nei quali i media, specie la televisione, sono stati decisivi per la conquista dei consensi in vista della conquista del potere politico: Collor de Mello, in Brasile, Ross Perot, negli USA, Berlusconi, in Italia. Qui, rilevanti sono gli effetti dei media sul voto. Per l’Italia, rispetto alle elezioni politiche deI 1994, Luca Ricolfi ha cal­colato che la televisione ha provocato lo spostamento di circa 4 milioni di voti, provo­cando la vittoria deI centro-destra (Ricolfi, 1994, p. 1039). Ross Perot è riuscito a otte­nere i suoi consistenti e inaspettati risultati elettorali in base a talk-show e spot televi­sivi. Collor de Mello è stato eletto grazie all’intervento massiccio della televisione di Roberto Marinho (Sartori, 1997, p. 79).

Ma altrettanto significativo è il «comportamento» dei media nei confronti dello stesso potere suffragato, a elezioni appena concluse. Cioè gli effetti sul dopo voto, la presenza di forti effetti d’interpolazione sia sui risultati elettorali che sui governi in formazione.

Ho condotto una ricerca sulle reazioni della stampa portoghese – su 16 pubblica­zioni di ambito nazionale: 9 quotidiani e 7 settimanali, tra l’11 e il 31 ottobre 1999 – ­alle elezioni politiche del1999 (10 ottobre) (13). Il Partito Socialista (PS) aveva vinto queste elezioni, con sistema elettorale proporzionale (e il metodo della media più alta di Hondt), con circa il 44% dei voti e 115 deputati sui 230 deI Parlamento. Il suo diretto avversario, il PSD, Partito Socialdemocratico, aveva otte­nuto il 32,3% dei voti e 81 deputati. Gli altri erano tre piccoli partiti (PCP, CDS/PP, BE) che avevano raccolto insieme circa il 20% e 34 deputati. L’astensione era salita daI 32,9% al 38,1 %. Tutti i partiti avevano perso, a causa deI forte incremento del­l’astensione, molti voti rispetto alle elezioni deI 1995: CDS/PP – 15,6%; PSD ­- 13,15%; PS – 7,68%; PCP – 4%14. II nuovo governo, insediato il 25 ottobre, era costi­tuito quasi integralmente da membri del governo precedente (solo tre su 18 ministri non ne avevano fatto parte).

L’analisi ha compreso tutti i commenti, apparsi sulle pubblicazioni suindicate, che riguardavano sia i risultati elettorali che la formazione del governo. Ha anche incluso i cosiddetti «barometri» delle pubblicazioni (chi sale, chi scende, chi vince, chi perde, ecc.). E, quindi, su 148 commenti sui risultati elettoraIi 77 davano un giudizio negati­vo sul risultato ottenuto dal PS (sconfitta, obiettivo mancato, amara vittoria, mezza vit­toria, mezzasconfitta, ecc., perché i1 PS non aveva ottenuto la maggioranza asso luta dei seggi). Cioè il 52% dei commenti giudicava negativamente il più importante risul­tato elettorale che il PS aveva ottenuto in tutta la sua storia. Se consideriamo, addirittu­ra, proprio i tre più importanti ed influenti giornali («Público», «Diário de Notícias» e il settimanaIe «Expresso») l’effetto d’interpolazione aumenta ancora d’intensità: su 49 commenti, il 65,3% giudicava i risultati come negativi, deludenti, fino a considerarli come una vera e propria sconfitta elettorale. I commenti piu radicaIi venivano dagli edi­torialisti più influenti.

D’altra parte, sulla formazione del governo, su 79 commenti 63 hanno giudicato negativamente un governo ancora in formazione o appena insediato e, comunque, prima che esso prendesse qualsiasi iniziativa o decisione. Cioè parliamo del 80% di commenti negativi su un governo che aveva appena ottenuto una schiacciante vittoria elettorale.

Ho potuto, quindi, accertare, in questa ricerca, un grave conflitto tra il principio elettivo, quale fondamento delIa democrazia, e l’opinione dominante che circolava nella stampa portoghese. Oltrettutto, gli stessi rilevamenti statistici dello stato dell’opinione pubblica confermavano sia i risultati elettorali che gli alti indici di gradimento del governo (13). Si è verificato ciò che chiamo effetto sistemico d’interpolazione dei media, ossia una forte distorsione nelIa rappresentazione mediatica dei fatti, contravvenendo gravemente allo schema deontologico di riferimento originario: i legittimi risultati del voto popolare vengono distorti mediante sovraccarico interpretativo della linearità numerica dei risultati e della legittimità costituzionale di libera forma­zione di un governo di maggioranza, avendo come risultato l’inizio di un doppio pro­cesso di strisciante e informale revoca del mandato popolare conferito e di annulIa­mento deI vecchio e stabile principio della legittimità di mandato. A ciò sopravviene un nuovo e più debole principio di legitimita fluttuante, cioè proprio una legittimità che depende sempre di più dai media e dai sondaggi che dal voto e dal cittadino. Si riduce, così, il principio elettivo a pura designazione formale dei rappresentanti, diventando residuale la vera legittimità di mandato, e si provoca una evidente «discra­sia della rappresentanza», ormai soggetta ad un permanente e logorante processo di revoca strisciante e informale del mandato (attraverso la critica permanente della legittimità, poi misurata dai sondaggi e, di nuovo, indebolita con la critica, in un logoramento mediatico a spirale del potere politico democratico).

8. a) Principio elettivo doppiamente indebolito, da un lato, dalla persuasione stru­mentale – a carico dei media – della volontà elettorale, prima (nella formazione della volontà) e dopo (nell’interpretazione dei risultati) il voto, e, dall’altro, dalla discra­sia progressiva della rappresentanza, mediante I’irruzione di un nuovo tipo di legit­timità, la legitimita fluttuante, suscitata dalla revoca strisciante del mandato; b) cre­scente privatizzazione delle funzioni sociali dello Stato, corrispondente alla crisi dello Stato sociale; e c) frammentazione della classe media tradizionale, diventata «Middle class», con i connotati che già abbiamo visto (vedasi Scalfari, 1994, dove egli cerca di spiegare strutturalmente e storicamente il caso Berlusconi). Tutto ciò avviene in un ambiente di crescente volatilizzazione dell’istanza politica sempre piu fagocitata dal sistema dei media e dai corrispettivi poteri, cioè sia dai poteri proprie­tari che dalle élites che circolano all’interno dei centri del potere mediatico e delle reti emittenti (radio, giomali, televisione). Ma quanto più si volatilizza l’istanza poli­tica e si destrutturano i vecchi collanti della democrazia rappresentativa – specie la classe media tradizionale, lo Stato sociale e i partiti organici – tanta più rilevanza acquistano i cosiddetti poteri fattuali -`non elettivi né portatori di specifica legittimi­tà politica – e, tra questi, specialmente, i poteri mediatici, ormai sempre più lontani dalla loro fonte di legittimità, cioè dal loro schema deontologico di riferimento, e in crescente fase di concentrazione, da Murdoch a Berlusconi.

Si direbbe che i poteri fattuali, davanti alla progressiva discrasia della rappre­sentanza, abbiano come strumento politico privilegiato proprio i media (dei quali possono essere anche proprietari) in modo tale da legittimare le loro pratiche e da condizionare contemporaneamente sia l’accesso al potere legittimo che il suo stes­so esercizio. In effetti, l’irruzione dei media nel campo politico come protagonisti ha cambiato non soltanto i modelli di promozione del consenso in vista dell’ottenimen­to del potere, ma soprattutto il modello stesso di legittimità. Sostengo, in effetti, che da una legittimità stabile siamo ormai passati ad una legittimità fluttuante, cioè per­manentemente condizionata dai media e dai sondaggi in modo tale da indurre quel­la che ho chiamato «discrasia della rappresentanza». Verifichiamo appunto che al raf­forzamento del potere dei media corrisponde sempre di più l’indebolimento del pote­re elettivo, senza che ciò si traduca in una crescita effettiva del potere della pubbli­ca opinione o del singolo cittadino. In effetti, i media sono oggi un potere dotato di soggettività auto-riflessa e auto-referenziale che rappresenta più se stesso (come potere e come istanza sociologica) che il pubblico che dovrebbe rappresentare. Il loro è oramai un discorso più prescrittivo che descrittivo o semplicemente narrati­vo. «In trent’anni, la prima pagina del NYT (New York Times) è passata dal 90 per cento di notizie di tipo “agenzia” (cioè di “informazione asciutta”) e 10 per cento di testo interpretativo o commentato alla proporzione inversa: 90 per cento di commen­to o analisi rispetto al 10 per cento di notizie in senso stretto» (Mesquita 2003). È il ritomo della dottrina della persuasione, solo che, questa volta, al servizio dei media stes­si o dei poteri che essi, il più delle volte, rappresentano, a cominciare dallo stesso potere aziendale privato che li gestisce.

9. È vero che una barriera formale e morale viene innalzata ogni volta che si paria di strumentalizzazione o di manipolazione dei media. Ma i casi sono troppi, le eviden­ze tante e lo stesso sistema operativo tale che non possiamo non dire che ormai vivia­mo una vera e propria contraddizione tra il funzionamento reale dei media e la loro fun­zione sociale originaria, tale in quanto poggiata su uno schema deontologico di riferi­mento che fonda la loro legittimità.

Un’analisi elementare dell’impianto e della strategia aziendale della maggior parte delle imprese e dei gruppi di comunicazione dimostrerà che cresce sempre di più il divario tra i modelli operativi e imprenditoriali dei media e la loro matrice normati­va, che decorre dalla loro funzione sociale originaria e dal corrispettivo codice deonto­logico e che fonda la speciale legittimità del loro operare rispetto a tutti gli altri setto­ri. Legittimità che ormai, vista la crisi della rappresentanza, viene presentata come equi­valente a quella che scaturisce dal principio elettivo, concedendo così al potere media­tico uno statuto pari, o addirittura superiore, a quello del potere politico.

Insomma, siamo davanti a mutazioni strutturali, nei rapporti tra i media e la demo­crazia, tali da prefigurare il passaggio a forme di democrazia di tipo post rappresenta­tivo, ma tali anche da preannunciare possibili sbocchi devianti rispetto al DNA della democrazia.

Certo, molte e importanti sono state le mutazioni globali che nel frattempo si sono verificate: cambiamenti strutturali nella geografia e nelIa geometria urbana (15); l’emer­genza della «middle class» come referente sociale fondamentale della società post indu­striale; la rivoluzione della microelettronica e delle comunicazioni in genere; l’intensi­ficazione dei flussi migratori internazionali; la fine della bipolarizzazione politica, stra­tegica e ideologica; la caduta delIe ideologie tradizionali; l’emergenza delIa scienza e della tecnica come forze produttive dominanti; la frantumazione dei grandi agglomera­ti sociali, specie della classe media tradizionale; la forte accelerazione delIa mobilità sociale.

Si potrebbe comunque parlare di uno speciale momento spartiacque a livello mon­diale: la Rivoluzione Europea del 1989. Il 1989 rappresenta, in effetti, il punto di svol­ta politico-sociale di una profonda mutazione che si stava dispiegando da qualche anno.

Si tratta di una mutazione talmente complessa da rendere molto difficile gerarchiz­zare i fattori del cambiamento. E tuttavia credo di aver individuato nella rivoluzione mediatica uno dei cardini della grande svolta: dal ruolo svolto dai mezzi di comunica­zione nello svolgimento della Rivoluzione del 1989 fino alla mondializzazione della comunicazione televisiva (il trionfo della CNN nelIa prima Guerra del Golfo) o al trionfo del sistema privato dei mezzi di comunicazione e corrispettiva imprenditoria­lizzazione.

10. In effetti, i media hanno svolto un ruolo di prim’ordine nelle mutazioni che si sono verificate nei sistemi sociali. E proprio questo ruolo li ha resi coscienti del potere che ormai detenevano all’interno della società, in particolare rispetto all’istanza politi­ca, in modo tale che da strumenti di comunicazione al servizio delle istanze tradiziona­li dell’azione politica sono diventati loro stessi diretti protagonisti politici. Ma è pro­prio questo cambiamento che suscita interrogativi dal punto di vista della legittimità: è conciliabile lo status di protagonisti politici con la funzione sociale originaria ed il cor­rispettivo schema deontologico di riferimento che ne fonda la legittimità? Di più: come si può conciliare l’esclusività strategica della lotta per l’«audience» con lo schema deontologico di riferimento? E ancora: il domínio totale – nel sistema operativo domi­nante dei media, specie in quelli che hanno adottato il modello tabloid – dello strumen­to nucleare di conquista dell’«audience», l’emozione indotta, è compatibile con la fun­zione sociale originaria dei media?

Io credo che le risposte non possano essere che negative. Cioè constatato il punto di svolta, verificato l’importante ruolo dei media nella svolta, concludiamo che la strada che stiamo percorrendo ci condurrà a forme devianti di democrazia (che molti identifi­cano con un populismo elettronico che si potrebbe «riempire» politicamente con conte­nuti neocorporativi) se non cambiamo direzione, cominciando dalla rivalutazione del­l’istanza elettiva e di tutti i meccanismi su cui poggia, arrivando a proporre come nuova utopia la vecchia legge kantiana della ragion pratica: agisci in modo tale che la massi­ma della tua volontà possa sempre valere allo stesso tempo come principio di una legi­slazione universale (Kant 1788, I, capo I, par. 7).

Note

(1) In questo saggio cerco di incrociare la teoria dei media con la teoria politica, riflettendo sugli effetti dei media sui meccanismi centrali della democrazia rappresentativa e sulle mutazioni strutturali che essi vi stanno provocando. Perciò dovró utilizzare dei concetti che mi permettano di addentrarmi meglio nei sofi­sticati meccanismi in mutazione. Mi appresto, poi, ad evidenziare e a definire quelli che, a mio parere, sono i più funzionali alI’analisi: 1. «effetto d’interpolazione» dei media, che può diventare «effetto sistemico d’interpolazione» (quando i media distorcono la linearità dei fatti mediante sovraccarico interpretativo); 2. «legittimità fluttuante» (per opposizione alla «legittimità di man­dato» conferita dal voto indirettamente a governo; la «legittimità fluttuante» diventa dominante e rispecchia l’immagine del governo secondo i media e i risultati dei regolari sondaggi d’opinione); 3. «revoca striscian­te e informale del mandato» (rappresenta l’intervento regolare dei media e dei sondaggi d’opinione con effetti sul logoramento dell’immagine del governo); 4. «schema normativo di riferimento» (codi­ce deontologico d’origine anglosassone, dove l’imparzialità, l’obiettività, la neutralità, l’equilibrio, la rilevanza e il plu­ralismo sono i principi portanti); 5. «discrasia della rappresentanza» (cattiva mescolanza, dove il potere poli­tico diventa debole quando la legittimità fluttuante si sovrappone alla legittimità di mandato).
(2) Quanto detto da Abruzzese, in «Elogio deI tempo futuro. Perché ha vinto Berlusconi» (1994, p. 14), rispetto al grande cambiamento verificatosi in Italia neI 1994, con la vittoria di Silvio Berlusconi nelle elezioni deI 27 marzo, rientra, a mio parere, neI processo di mutazione della matrice della democrazia rappresentativa ad opera dei media: «Quando un partito nasce con la rapidità di una catastrofe, quando uno schieramento prende il potere nei modi immediati e inattesi di una rivoluzione, è iI caso di riflette­re sulla solidità delIe mura che cingono la città da difendere e sull’abilità dei guardiani a cui erano affi­date le porte di accesso alle piazze, alle strade, ai mercati e alle sale del governo. È iI caso di ripensare anche alla qualità stessa della città che abitiamo, che crediamo di conoscere. Forse ci potremmo accor­gere che la nostra città è mutata radicalmente e che non il vincitore ma lo sconfitto rischia di essere recepito come un estraneo, uno che viene da fuori, che ha vissuto e, peggio ancora, continua a vivere all’esterno delle sue mura».
(3) «Siccome recettività, capacità cognitiva e attenzione del pubblico», dice Habermas, «sono risorse straordinariamente scarse – per la cui conquista le reti televisive si danno quotidianamente battaglia – la pre­sentazione di notizie e commenti deve quasi sempre sottostare alle strategie di mercato e alle “ricette” degli esperti di pubblicità (italico mio). Personalizzare i problemi oggettivi, mescolare informazione e divertimento, elaborare i dati in maniera episodica, frammentare i contesti: questi sono i fattori incremen­tanti la sindrome di “spoliticizzazione” che colpisce la comunicazione pubblica» (1992, p. 447).
(4) Non aveva ragione, quindi, Clinton quando, nel 1993, invitato a cena dalla Radio and Televison Correspondents Association fece una affermazione stupefacente che lasció i giornalisti alquanto arrabbiati: «Sapete perché posso ignorarvi alle conferenze stampa? Perehé Larry King mi ha liberato da voi, mettendo­mi in contatto direttamente con il popolo americano» (Tonello, 1999, p. 40). In effetti, Clinton parla diretta­mente al popolo, ma da un pulpito, quello di Lany King, di una importante cattedrale mediatica, la CNN.
(5) La letteratura sul tema è ormai sterminata, sia riguardo al ’94 che alle altre elezioni politiche. Comunque, su Forza ltalia è molto interessante il lavoro di Poli (2001).
(6) Dirompente fu davvero l’alleanza tra i media e i giudici di «Mani pulite» soprattutto quando venivano trasmessi direttamente in TV i famosi processi, con tanto di umiliazione pubblica degli antichi dirigenti politici. Dirompente è stata, in Portogallo, l’alleanza tra il potere giudiziario e i media nella gestione del processo di pedofilia e che ha visto imputati importanti personaggi del mondo politico, diplomatico e dello spettacolo, laddove, tutti i giorni, i brani processuali coperti dal «secreto istruttorio» venivano pub­blicati a sostegno delle rispettive strategie.
(7) Vedasi, rispetto alla «middle class», ciò che dice la Wikipedia: «In Europe and the United States, indu­strialization eventually caused the middle class to swell at the expense of the lower, so that by the middle of the 20″ century it constituted a majority. Now, the label is often swollen to cover the bulk of society and its norms. As the swollen middle class lost its distinctive usefulness as a label, observers invented sub­labels: we often detected in contemporary societies at least an “upper middle class” and a “lower middle class”. Modern political economy considers a large middle c1ass to be a beneficial, stabilizing influence on society, because it has neither the explosive revolutionary tendencies of lower c1ass, nor the stultifying greedy tendencies of the upper class» (http://en.wikipedia.org.lwiki/Middle-class). Oppure la Encarta della Microsoft: «Among the United Kingdom population, the upper middle class (such as senior managers and professionals) forms around 10 per cent; the true middIe c1ass (such as teachers and administrators) around 20 per cent; and the lower middle class, traditionally known as the petit bourgeoisie (small-business peo­ple junior office workers), 20 per cento. Combining all of these sectors, this makes the middle class the lar­gest class in British society» (Microsoft Encarta 98 Encyclopedia. 1993-1997 Microsoft Corporation).
(8) Il concetto di “rappresentazione” ha molti sensi: spettacolo, atto conoscitivo, descrizione matemati­ca. “Rappresentanza” ha un senso giuridico oppure un senso politico, nella democrazia rappresentativa. In queste riflessioni mi riferisco ai due primi sensi di “rappresentazione” e all’ ultimo senso di “rappresentan­za”, cioè al mandato non imperativo.
(9) Per indurre distanza critica rispetto all’eccesso di identificazione del pubblico con la rappresentazio­ne, Brecht ha evidenziato, nel teatro, un «effetto di straniamento» (Entfremdungseffekt) che provoca appun­to differenza critica nello spettatore: «si tendeva a far recitare gli attori in maniera da rendere impossibile allo spettatore di immedesimarsi sentimentalmente con i personaggi del dramma. L’accettazione o il rifiu­to di ciò che questi facevano o dicevano doveva avvenire nella sfera cosciente dello spettatore, e non, come era avvenuto finora, nel suo inconscio» (Brecht 1937-1956, p. 103).
(10) Lo stesso Popper, che critica radicalmente lo stato della cultura televisiva, paradossalmente, ma non troppo, nella sua Lisbon Lecture, del 1987, nella Fondazione Calouste Gulbenkian, sostiene una teoria della democrazia che si avvicina proprio a questo modello della democrazia del pubblico, dove il cittadi­no ha soltanto il compito di «bocciare» i governi, determinando, attraverso una capacità meramente nega­tiva, la regolare sostituzione dei governi all’interno di un processo di circolazione interna delle élites (veda­si la mia critica a Popper in Santos, 1998, pp. 32-38).
(11) Ma è vero che sulla teoria degli effetti i teorici sono molto divisi tra l’ipotesi minimalista (effetti limitati) e l’ipotesi massimalista (powerful media). Tra gli altri, vedasi: Wolf (1992); Bentivegna (a cura di) (1994); Bryant e Zillmann (a cura di) (1994); Tonello (1999, pp. 203-223).
(12) Ma si veda anche la critica di Habermas: «Ma questa abolizione dei confini va di pari passo con la moltiplicazione dei ruoli contemporaneamente specificati, con la pluralizzazione delle forme di vita e l’in­dividualizzazione dei progetti di vita. Lo sradicamento è accompagnato dalla costruzione di particolari appartenenze e provenienze comunitarie, il livellamento dall’impotenza di fronte alla complessità sistemi­ca non compresa. Si tratta piuttosto di sviluppi complementari intrecciati l’uno con l’altro. Così, i mezzi di comunicazione di massa producono effetti contrastanti anche in altre dimensioni. Molte cose fanno pensa­re che il potenziale democratico di una sfera pubblica, la cui infrastruttura reca l’impronta delle crescenti pressioni selettive della comunicazione elettronica di massa, sia ambivalente» (1962, XLII-XLIII).
(13) I risultati presentati in «La scienza è una curiosità» (Bari, Manni, 2004) erano ancora provvisori. Vedasi ora Santos (2009, pp. 259-261).
(14) Il partito più colpito è stato il CDS/PP (il quarto partito tra i cinque con presenza parlamentare, non considerando i Verdi, giacché questi si presentano sempre in coalizione con il PCP), con meno il 15,6% dei voti rispetto alle elezioni politiche del 1995. Ma ciò non ha impedito alla giornalista del «Público» – uno dei più influenti quotidiani portoghesi – Eunice Lourenço di dire (11/10/99, pag. 6) che il leader di que­sto partito di destra, Paulo Portas, fu il vero vincitore di queste elezioni («Portas pôde cantar vitória»; «con­tudo, a noite de ontem foi de vitória para Portas»; «e a noite acabou em alta, com Portas a fazer uma decla­ração honesta, em que não embandeirou vitória, e se alguém podia fazê-lo era ele»).
(15) Per esempio, qualcuno spiega, almeno in parte, come Lewin (1988), l’irruzione del fenomeno della Perestroika con i profondi cambiamenti di questo tipo che si sono verificati negli ultimi decenni dell’URSS.

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[“La scienza e una curiosità”. Scritti in onore di Umberto Cerroni a cura di Cosimo Perrotta,
Manni Editori, San Cesario di Lecce, 2004, con interventi di MANLIO MAGGI, FRANCESCO MARTELLONI, ORESTE MASSARI, ANNA MARIA NASSISI, ROSALBA NESTORE, ALESSANDRO ORSINI, COSIMO PERROTTA, CESARE PINELLI, GRAZIELLA PISANÓ, MICHELE PROSPERO, CESARE SALVI, ALFREDO SENSALES, CELESTINO SPADA, GHEORGHE LENCAN STOICA, EGIDIO ZACHEO, RICCARDO CAPORALI, ANDREA CERRONI, AQUILES CHIHU AMPARÁN, JOÃo DE ALMEIDA SANTOS, FABIO DE NARDlS, VITANTONIO GIOIA.]

Berlusconi o el nuevo príncipe pos-moderno

Actualmente, es ya muy abundante la literatura científica sobre el caso Berlusconi. Sobre todo en Italia. Pero también en otros países. Y se entiende fácilmente el interés por el caso teniendo en cuenta que representa una ruptura con el modelo que, en la democracia representativa, garantizaba una diferenciación funcional entre el poder económico, el poder político y el poder informativo-cultural.

En efecto, estos tres poderes corresponden a tres importantes subsistemas sociales (economía, política, información-cultura) con estructuras lógicas y funcionalidades diferenciadas. Por ejemplo, la acción política no es reducible al modelo lógico de la relación racional entre medios y fines, como ocurre en la economía. La distinción habermasiana, (Theorie des kommunikativen Handels, de 1981), entre actuación estratégica y actuación comunicativa indica bien la diferencia entre el subsistema económico y el subsistema político: en el primero se trata de la racionalidad cognoscitiva-instrumental (transformable en la relación racional medios-fines), que contempla la influencia y el éxito y remite a imperativos sistémicos (economía y Estado); en el segundo caso, se trata de la racionalidad comunicativa, que visa el acuerdo argumentado con pretensiones de validez criticables y remite al mundo de la vida (esfera pública y esfera privada – Habermas, 1982).

Está claro que Habermas, siguiendo la estela de Parsons describe el poder como medium sistémico de control, determinado por una racionalidad instrumental y funcional en la relación racional entre medios y fines. Max Weber colocó en el centro de la sociedad moderna esta misma lógica: el “tipo ideal” zweckrational. Y Talcott Parsons elevó este “tipo ideal” a esquema analítico de la acción. En pocas palabras, relevantes interpretaciones de la sociedad moderna elevaron la relación racional medios-fines a lógica “constituyente” de la sociedad moderna.

Cuando Max Weber habla de la “jaula de acero” se refiere a este proceso sistémico de generalización de la racionalidad cognitivo-instrumental. El propio subsistema informativo-cultural es lógicamente intercambiable con el subsistema económico cuando es colonizado por una racionalidad de tipo instrumental funcionalizada exclusivamente por la lógica del mercado y supervisa sólo la influencia y el éxito y cuando ambos subsistemas operan en el interior de un esquema de referencia configurado únicamente según los cánones de una lógica de tipo relacional (y no inherente). Pero ya no ocurre lo mismo con el subsistema político representantivo, toda vez que posee una diferencia no completamente homologable con una lógica relacional, ya que es él mismo el que regula todo el sistema social a través de la producción de las reglas que determinan funcionalmente las relaciones entre los subsistemas y dentro de ellos, adquiriendo, de este modo, una intencionalidad no totalmente reductible a una pura relación lógica entre variables independientes. Por esta razón, el subsistema político democrático se diferencia cualitativamente de los otros subsistemas, separándose y elevándose por encima de ellos para que pueda producir libremente las reglas que regulan el sistema social (Santos, 1998). La democracia representativa, en efecto, contiene un mecanismo central que permite la separación funcional del subsistema político en relación a los otros subsistemas, anulando la posibilidad de plena intercambiabilidad entre ellos y confiriéndole una legitimidad universal que los otros no poseen.Se trata del mandato no imperativo: por medio del principio electivo se hace posible “constituir” un subsistema político que funcione según el principio de irrevocabilidad y de la irreversibilidad del mandato. El mandato no imperativo permite una clara separación entre el sistema político y los demás subsistemas sociales desde el punto de vista de la legitimidad, de la autonomía y de la extensión de la decisión. La esencia de la democracia representativa reside en este núcleo central. Al representante se le confiere la capacidad funcional de decidir en libertad, de forma radical y universal: una autonomía irrevocable, condición de la propia libertad de decisión. Es este mecanismo el que establece en el subsistema político el excepcional poder de decisión y la legitimidad que lo sostiene. O sea: el poder democrático representativo se institucionaliza a partir de una diferencia y de una separación verdaderamente constituyentes: la diferencia entre el representante y el representado y la separación entre el subsistema político-institucional y la “sociedad civil”. Lo que, aparentemente, parecía ser una debilidad del sistema, finalmente, constituye su pilar fundamental.

(La economía, como modelo social)

Ahora bien, es aquí donde debe situarse el caso Berlusconi, en el lugar en el que la diferencia y la separación son cada vez más residuales, precisamente porque la lógica y la funcionalidad propias del subsistema económico son importadas directamente, y en toda su extensión, por el subsistema político, sobrepasando al sensible mecanismo del “mandato no imperativo” y a todos los principios y funciones ligados al mismo. El dispositivo institucional de la democracia representativa surge “colonizado” por una lógica que es propia de un subsistema que no se puede intercambiar con él. Es decir, en la operación berlusconiana se demuestra una colonización sistémica de la democracia representativa: el modelo lógico de un medium de regulación como la economía, se eleva a modelo “constituyente” en la sociedad. Sólo que el modelo político que es resultado de la democracia representativa no es reductible a este modelo lógico. Tampoco tendría sentido el principio del “mandato imperativo” en el lugar en el que se conforma el imperativo moral, la libertad radical de conciencia –y los valores constituyentes de la sociedad por lo tanto-, son dimensiones que no pueden reducirse a una racionalidad cognitivo-instrumental.

Habermas (1982) define el modelo democrático partiendo de la integración de cuatro tipos ideales de acción: la actuación teleológico/estratégica, la actuación regulada por normas, la actuación dramatizada y la actuación orientada al acuerdo. Esta última, que identifica como actuación comunicativa, es la más compleja, integra a todos los otros tipos y es propio de la democracia. En pocas palabras, no es posible reducir la práctica democrática representativa a la actuación teleológica/estratégica– o actuación racional en relación al objetivo –propio del subsistema económico, en la medida en que la democracia revela un universo mucho más complejo que el del universo del “mundo objetivo” y, por ello, reúne en su proceso fundamental, otras dimensiones más complejas, sutiles y sensibles. Y, aun así, el modelo que Berlusconi adopta es, como veremos, justamente el modelo teleológico.

En un ensayo de 1994, año del primer ascenso al poder de Berlusconi, Eugenio Scalfari dice lo mismo con otras palabras. Habiendo desaparecido la burguesía como clase general, responsable de la creación y de la gestión juiciosa del sistema democrático representativo, y habiendo emergido una burguesía predominantemente financiera, “ejecutiva” y marcadamente corporativa, al mismo tiempo que emergía una “middle class” muy fragmentada y caracterizada más por criterios de tipo superestrutural que sustancial, sin identidad propia, existencialmente nómada, culturalmente precaria, masificada y anónima, se hizo posible la irrupción de un fenómeno como el de Berlusconi. Lo que se debate, según Scalfari, es el paso, en el interior del mismo sistema democrático representativo, del modelo de burguesía como clase general al modelo de burguesía como clase corporativa, es decir, empleando la fórmula de la razón práctica de Kant, como clase que no actúa como si su axioma valiese al tiempo como principio de una legislación universal (Kant, 1966). O sea, una burguesía que, orientada exclusivamente a afirmar su poderío económico, transforma la actuación estratégica y la correspondiente racionalidad cognitivo-instrumental en “tipo ideal” universal del sistema social.La referencia original de la democracia representativa era, precisamente, una clase general que promovió la afirmación histórica de todo el entramado estatal moderno que fue configurado como Estado democrático y de derecho, a partir del principio de separación, en sintonía con aquella “incisión” que Hegel consideraba «la constitución fundamental de la nueva época», o también «forma del mundo moderno y de su conciencia» (Ritter, 1977; Cerroni, 1974). Ahora bien, lo que la experiencia berlusconiana apunta es, precisamente, no sólo la anulación de esa diferencia estructurante de la democracia representativa, sino también la eliminación de la vocación universal que hacía de la burguesía un elemento imprescindible de la democracia. El modelo que propugna (actuación estratégica y racionalidad cognitivo-instrumental), el sujeto político que crea para institucionalizar ese modelo (el Partido-empresa Forza Italia) y los agentes sociales que emergen políticamente como propulsores, bien del modelo, bien del nuevo sujeto político (los hombres de Fininvest) evidencian la ruptura con la idea moderna de incisión o de diferencia que fueron el origen de la democracia representativa.

(El partido-empresa)

Es bajo el telón de fondo de estas profundas fracturas del modelo convencional de la democracia representativa como mejor podemos entender la obra de Pierre Musso (2003): “Berlusconi, le nouveau prince”. Musso no las especifica utilizando conceptos habermasianos, sino conceptos gramscianos, evidenciando, aun así, de forma clara, los términos del paso de una democracia representativa del Estado-Nación Italia, basada en los anclajes tradicionales del Estado, de los partidos políticos clásicos, de los intelectuales tradicionales y de las ideologías, hacia una “democracia competitiva” de la Empresa Italia, basada en un modelo de Nación-Empresa, centrada en un nuevo tipo de partido político (el Partido-empresa Forza Italia) con nuevos intelectuales orgánicos (Gramsci) posmodernos, marketing y publicidad en sustitución de los viejos ideólogos y de la ideología. Como señala Musso: «Berlusconi se posiciona sistemáticamente contra la hegemonía creada por la esfera estatal y de sus intelectuales, de los partidos políticos clásicos y de los universitarios para sustituirlos por la representaciones sociales de los vendedores y del marketing, de los periodistas, de la gente de los medios y de la empresa».

Si quisiéramos traducir en dicotomías la ruptura causada por Berlusconi en relación con el modelo tradicional de hacer política, podríamos hacerlo del siguiente modo:

Ciudanano-elector versus telespectador/consumidor; Estado versus empresa; político versus empresario/manager; partidos y sindicatos versus partido-empresa/Forza Italia; hegemonía del Estado versus patriotismo empresarial de comunicación; modo de producción industrial versus modo de producción simbólico; ideología versus publicidad; fábricas (Turín) versus bolsa (Milán); CAF (Craxi, Andreotti, Forlani) versus Berlusconi; intelectual moderno (Turín)/ intelectual tradicional (Roma) versus intelectual posmoderno (Milán); capitalismo de palacio versus capitalismo de pantalla; televisión pública versus televisión privada; paleotelevisión versus neotelevisión (Musso, 2003: 107; 114) .

Es decir, Berlusconi parte del modelo de éxito de su Fininvest y lo aplica directamente a la esfera política, en un contexto de crisis del anterior sistema de partidos. Dice Musso: «La importación de tal modelo de circulación mediático-publicitario al campo político en crisis, garantiza el éxito de Berlusconi». O mejor: «Forza Italia, por lo tanto, ya no es sino el último elemento de la la última oferta empaquetada del Grupo Fininvest. Berlusconi extiende su “gama de productos” al espacio público y “vampiriza” el escenario político. Por medio de esta ampliación, privatiza el espacio público, “tecnologiza” lo político y, de esta manera, hace triunfar la figura de la empresa de comunicación, confundiéndose con ella».

El proceso de construcción de Forza Italia, en 1993, evidenció la fusión perfecta entre política y economía en el lugar donde el subsistema informativo-cultural, ya integralmente adaptado a las exigencias de la nueva industria cultural y del consumo simbólico, y, por tanto, a la lógica de la economía, sirvió de plataforma para la operación. Forza Italia es un nuevo producto de Fininvest (su extensión política), que se lanza al mercado de consumo simbólico, en el que los ciudadanos ceden su protagonismo a los consumidores/telespectadores y donde la política surge como un nuevo producto de la más variada industria cultural patrocinada por Fininvest. Es la afirmación de mercado del nuevo producto lo que le facilita la reconversión institucional y su tranformación en poder político basado en las leyes del mercado.

Por eso, Ilvo Diamanti se refirió a la lección schumpeteriana de Berlusconi (Diamanti, 1994), así como también por ello Pierre Musso dice que Berlusconi va más allá de Schumpeter, con la transmutación de Fininvest en Estado y del Estado en Empresa. Es por lo que Pierre Musso propone el concepto de “comanagement”, que expresa la íntima fusión entre comunicaicón y management: “imposición general a la sociedad del dogna directivo de la efficiency y de las formas de teatralización televisiva”. O sea, hay confusión entre el management de la empresa neofordista de los espectáculos y la hegemonía simbólica y política del discurso comunicativo. De esta confusión nace, pues, una neopolítica, nivelada, sin duda, según las exigencias de ambos subsistemas (económico e informativo-cultural), pero de una única racionalidad instrumental, la de la economía.

(Televisión y publicidad)

La televisión desempeña en este caso un papel esencial. En primer lugar, todo el proceso de conquista del mercado por las televisiones privadas de Berlusconi fue, visto el éxito, trasladado al proceso de construcción, afirmación y expansión del nuevo producto político Forza Italia/ Berlusconi. A fin de cuentas, se trataba de un producto totalmente convertible en producto de la industria cultural, en producto televisivo, y, por ende, totalmente asimilable por la lógica de la producción y la reproducción del propio poder televisivo. No por casualidad Pierre Musso afirma que, con Berlusconi, la política se vuelve “audiovisual continuado por otros medios”. En segundo lugar, la televisión es un poderoso instrumento publicitario debido a su extraordinaria capacidad para ficcionar la realidad social. En este sentido, como señala Musso, puede transformarse en una formidable máquina de reciclaje del “tiempo perdido”, con una impresionante capacidad para envolver al ciudadano espectador en las narrativas de la industria cultural. En esto consiste la perfecta coincidencia de sus targets televisivos con los targets político-electorales. Y es por ello por lo que muchos explican la victoria de Berlusconi en 1994 con la matriz televisiva de su discurso político.

Pero, si es verdad que la posesión de una plataforma de televisiones y de un poderoso grupo económico es el origen del proyecto político berlusconiano, también es verdad que, como dice Musso, el éxito político de Berlusconi no se debe tanto a este hecho y a la consiguiente capacidadad de manipulacion de la television, como a la «importación al campo de la representación política de las técnicas de escenificación y de programación de la televisión comercial generalista», dada la enorme capacidad que posee para ficcionar la realidad. Mas que manipulación (que la hubo y en abundancia), en sentido estricto se trató de importar el discurso televisivo al ámbito político. En este sentido, Musso relativiza la influencia directa de los medios de comunicación en los resultados electorales. Se trataba, como apunta Ilvo Diamanti, citado por Musso, de la transposición política, en votos, del sentimiento de pertenencia televisiva (sucedáneo de los sentimientos de pertenencia territorial, religiosa, social,…). Y, de este modo “el deseo entró en política y la imagen tomó el poder”. O, como dice Carlo Freccero, también citado por Musso, «la política de Berlusconi no es una deriva plebiscitaria, es una deriva publicitaria».

Empleando conceptos habermasianos, se podría decir que funcionalmente relacionados con la fría adopción de una racionalidad cognitivo-instrumental y de una actuación estratégica para alcanzar el poder, los dos conceptos asumidos por la máquina berlusconiana fueron el de influencia y el de éxito. Berlusconi pudo y supo dotar de eficaces instrumentos técnicos a su ideología primaria: el utilitarismo. Pero Musso hace una aproximación a Berlusconi a partir de conceptos gramscianos: hegemonía, nuevo príncipe, intelectual orgánico. Pero también: americanismo y fordismo. Lo que encuentra soporte real en los escritos gramscianos sobre americanismo y fordismo, en el Cuaderno 22 de los Quaderni del Carcere (Gramsci, 1975), y, en parte, en el famoso ensayo Alcuni temi della quistione meridionale, de 1926 (Gramsci, 1978).

La lógica de esta transposición conceptual encaja bien en el contexto conceptual gramsciano. El nuevo intelectual orgánico, al que sucede aquel intelectual tradicional a quien estaba confiada la hegemonía del Estado (estuviese empadronado en Roma o en Turín) es el “manager de la empresa de comunicación, especialista en los media, en marketing, en publicidad, en finanzas, técnico de los flujos y de lo inmaterial, manipulador de símbolos”. El nuevo príncipe (“posmoderno”) es el partido-empresa Forza Italia/Berlusconi, embrión del nuevo Estado, refundándose según las categorías de la empresa posfordista y de la comunicación. La hegemonía es equivalente a la que refiere Gramsci a propósito del americanismo, cuando señala que la hegemonía nace de la fábrica: “una vez que existan estas condiciones preliminares, ya racionalizadas por el desarrollo histórico, fue relativametne fácil racionalizar la producción y el trabajo, combinando hábilmente la fuerza (destrucción del sindicalismo obrero de base territorial) con la persuasión (elevados sueldos, beneficios sociales diversos, propaganda ideológica y política muy hábil) y consiguiendo centrar toda la vida del país sobre la producción. La hegemonía nace de la fábrica y no tiene necesidad de afirmarse sino de una cantidad mínima de intermediarios profesionales de la política y de la ideología” (Gramsci, 1975). Musso cita la Cuestión Meriodional. También aquí, de facto, Gramsci habla de un nuevo tipo de intelectual salido de la revolución industrial: “el organizador técnico, el especialista de la ciencia aplicada” (Gramsci, 1978; Musso, 2003).

Está claro que la interpretación gramsciana de Berlusconi sólo se podrá llevar a cabo depurando su estructura filosófica de fondo: la hegemonía de Gramsci representa la afirmación social de una mundividencia ético-política y cultural con profundidad temporal (en relación al pasado y en relación al futuro) y con capacidad de propulsión histórica (Santos, 1986); la hegemonía de Berlusconi se confunde con la afirmación social de estilos de vida, de formas sociales sin profundidad temporal y puramente reactivas, es light y simulada, es objeto de una cuidada atención por parte de técnicos de investigación de mercado y especialistas en marketing, y está promocionada comercialmente por los nuevos aparatos de la hegemonía, en particular por la televisión. Nace de esa fábrica posmoderna que es la televisión.

El nuevo príncipe, que para Gramsc, era el Partido, en cuanto “intelectual colectivo”, para Berlusconi es él mismo, en la medida en que Forza Italia, verdaderamente, es un partido personal, en el sentido en el que lo define Mauro Calise ( 2000). A decir verdad, los “Berluscones”, los hombres del Grupo Fininvest, son “intelectuales orgánicos” en el sentido de que militan en el Partido-empresa y trabajan a favor de su implantación hegemónica. Son orgánicos y técnicos de la investigación social y de la retórica comercial. De americanismo y de fordismo también es legítimo hablar en la medida en que, por un lado, los estilos de vida fomentados dentro del universo Fininvest (y, por extensión, de Forza Italia) obedecen a características empresarialmente definidas y en que, por otro lado, también aquí es apropiado hablar de “racionalización” preliminar de las condiciones generales de producción (Gramsci, 1975).

La sociedad, en la mundividencia política berlusconiana, debe ser no sólo una proyección conceptual del modelo de Empresa de éxito (Fininvest), sino también de los estilos de vida que se expresan en su terminal más importante, la neotelevisión comercial. La universalización de esta mundividencia le corresponderá, así, a una nueva hegemonía: la que nace de la empresa televisiva.

Si, en efecto, traducimos fábrica por empresa, facilmente hallaremos los términos en los que Berlusconi pretende respaldar su proyecto político, en una curiosa coincidencia entre los intereses y los valores de su propio grupo, Fininvest, y los intereses y valores del país, casi como si pretendiese reeditar en versión posmoderna y posindustrial el viejo dictado italiano sobre la FIAT en el periodo industrial y fordista: «lo que es bueno para FIAT es bueno para Italia». Sólo que la familia Agnelli, durante la fase industrializadora, nunca soñó con romper el clásico modelo de la separación funcional de los diversos poderes para concretar aquello que FIAT representó. Ahora, la hegemonía está garantizada no ya por la efectiva presencia territorial difusa y capilar de un grupo económico de tipo industrial, sino por las nuevas industrias culturales de las que Berlusconi es promotor, siendo sus intelectuales orgánicos sus técnicos de comunicación y marketing, periodistas y entertainers, especialistas en finanzas, técnicos de flujos y de lo inmaterial y manipuladores de símbolos.

El nuevo príncipe se afianza, en este contexto, no tanto como longa manus del poder económico, sino, sobre todo, como su proyección conceptual.

(Telos, Madrid, n. 62, enero-marzo 2005: 97-102. Traducción: Alberto Pena)

Referencias bibliográficas

CALISE, M. (2000) Il partito personale, Laterza, Roma-Bari.

CERRONI, U. (1974) Società civile e Stato político in Hegel, De Donato, Bari.

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GRAMSCI, A. (1975) Quaderni del Carcere, Einaudi, Torino.

GRAMSCI. A., (1978) La costruzione del partito comunista (1923-1926), Einaudi, Torino, [1971].

HABERMAS, J. (1982) Theorie des hommunikativen Handelns, Frankfurt am Main, Suhrkamp, zweite Auflage, [1981].

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RITTER, J. (1977) Hegel e la rivoluzione francese, Guida Editori, Nápoles, [1965].

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SANTOS, J. de A. (1998) Paradoxos da democracia, Fenda, Lisboa.

SCALFARI, E. (1994) Meditazioni sul tramonto della borghesia in «MicroMega» 4/94, Roma, 1994, págs. 23-31.

Saggio su Mannheim e la sociologia della conoscenza

JOÃO DE ALMEIDA SANTOS

La ricerca che qui svolgo sul pensiero di Karl Mannheim e le origini della sociologia della conoscenza si sofferma sugli scritti del periodo che intercorre tra il 1922 e il 1936. E cioè: Die Strukturanalyse der Erkenntnistheorie (1922); Zum Problem einer Klassifikation der Wissenschaften (1922); Beiträge zur Theorie der Weltanschauungs‑Interpretation (1923); Historismus (1924); Das Problem einer Soziologie des Wissens (1925); Ideologische und soziologische Interpretation der geistigen Gebilde (1926); Das Problem der Generationen (1928); Zur Problematik der Soziologie in Deutschland (1929); Die Bedeutung der Konkurrenz im Gebiete des Geistigen (1929), Über das Wesen und die Bedeutung des wirtschaftlichen Erfolgsstrebens. Ein Beitrag zur Wirtschaftssoziologie (1930); Ideology and Utopia (1929; 1931; 1936). Non ho, quindi, preso in considerazione l’importantissimo scritto del 1927, Das konservative Denken (ma si veda Santos, 1999: 74-79), né quello del 1935, Mensch und Gesellschaft im Zeitalter des Umbaus. D’altronde all’analisi specifica che, in altra sede, farò di queste opere, cioè dell’impatto strutturale dei postulati teoretici della sociologia della conoscenza su di esse, aggiungerò anche quella di Diagnosis of our Time (1943) e di Freedom, Power and Democratic Planning (1950). In questo caso, si tratterà di veder all’opera la sociologia della conoscenza mannheimiana sul piano del pensiero politico.

Analisi strutturale della teoria della conoscenza

Il primo compito di questa ricerca è quello di produrre una sintesi complessiva del pensiero logico‑metodologico di Mannheim. E proprio per questo comincio partendo dall’analisi della tesi di dottorato di Mannheim, Die Strukturanalyse der Erkenntnistheorie, nonostante l`impostazione generale di quest’opera, il suo postulato centrale, sia in palese contraddizione con quella del cosiddetto periodo storicistico, cioè per l’appunto, quello della sociologia della conoscenza. Ossia: mentre in quell’opera Mannheim ci presenta la storia e i singoli pensatori come semplici mezzi per l’attualizzazione dei punti di vista possibili per una ragione (Vernunft) intemporale come tale, in quell’altra del ‘35, Mensch und Gesellschaft im Zeitalter des Umbaus, per esempio, non esita ad affermare che «non esiste il pensiero come tale».

E, tuttavia, forse qualche tendenza centrale della sociologia della conoscenza può essere già rintracciabile in quest’opera del ’22:

a. la tendenza all’uso dell’analisi strutturale;

b. il primato della totalità, del contesto;

c. le tendenze dello sviluppo storico disuguale della scienza, dell’arte, della filosofia;

d. la pregnanza del problema della validità;

e. il carattere determinante degli schemi o modelli di riferimento.

Sono, quindi, d’accordo con quanto afferma Paul Kecskemeti nell’ introduzione all’edizione inglese degli Essays on the Sociology of Knowledge, di Mannheim (Mannheim, 1972a: 9-11). E sottolineo che, qui, la sociologia non ha ancora pieno diritto di cittadinanza, poiché le scienze rilevanti, le scienze fondamentali sono la logica, la psicologia e l’ontologia.

Ma se queste cinque tendenze metodologiche sono senza alcun dubbio riscontrabili nella sociologia della conoscenza, come vedremo, esse vengono, tuttavia, indirizzate in senso opposto: mentre nell’opera del ’22 esse venivano funzionalizzate ad «eine zeitlose Vernunft überhaupt», ad un soggetto logico‑trascendentale, o ad una specie di kantiana «Bewusstsein überhaupt», su cui poggia la Systematisierung, o fondazione logico-trascendentale della teoria della conoscenza, negli scritti del dopo ’23, invece, quelle stesse tendenze verranno funzionalizzate ad una prospettiva sociologica, storica, temporale, ad una prospettiva piú storicistica e meno statica.

Lo scritto del 1922 non risponde, infatti, a questa esigenza di storicizzazione della validità neanche nello stesso campo storico‑sociale, poiché, per Mannheim, l’ele­mento storico‑empirico, la storia, non è che un luogo di attualizzazione di punti di vista (Standpunkte) possibili per «eine zeitlose Vernunft überhaupt» (Mannheim, 1970: 194‑201). Ragione (Vernunft) che contiene il regno di una va­lidità incondizionata estranea o indipendente da ciò che è storico, cioè mutevole.

Le Wahrheiten non possono né nascere né perire e della storia bisogna, quindi, rendere conto dal punto di vista della logica statica (1970: 200, n. 11): il fatto indubitabile che tutto nella storia sia soggetto al cambiamento implica che essa non sia portata verso il regno del significato (meaning) e della validità. La storia contiene soltanto le condizioni per la realizzazione, la materializzazione di (è l’occasione per) un Standpunkt aprioristico possibile (1970: 198). La storia e i singoli intellettuali compaiono come concreti mezzi per i diversi punti di vista possibili, per una Ragione intemporale come tale. Così, sembra che la storia non sia proprio un flusso, ma una corrente verso un obbiettivo finale (1970: 199; 1969: 39).

«Das Zeitliche», afferma Mannheim, «als solches enthält nur die Möglichkeiten der Aktualisierung, aber keineswegs die sinnhaltigen Momente an sich, die nur an Hand einer Strukturanalyse darstellbar sind» (1970: 197).

Non c’è dubbio che abbiamo a che fare con una prospettiva di tipo scheleriano per ciò che riguarda il rapporto dell’elemento storico‑empirico con quello trascendentale: la storia ha un mero ruolo di selezione della verità intemporale, incondizionata e pre‑data, una funzione attualizzatrice del significato.

Il saggio del ’22 vuole, infatti, rendere conto del processo storico dal punto di vista di una logica statica, cioè scoprendo la struttura formale comune ad ogni teoria della conoscenza (Erkenntnisteorie, che gli inglesi traducono sempre per epistemology) storicamente data. Vuole scoprire una invariante strutturale, cioè quella che Mannheim chiama la Systematisierung (sistematizzazione) specifica della teoria della conoscenza. La strada percorsa da Mannheim è semplice.

Dove comincia la teoria della conoscenza?

«Questa [Erkenntnistheorie] diventa possibile solo perché noi siamo capaci di liberarci per momenti da questo conoscere orientato esclusivamente verso l’oggetto [Objekt] e, se sarà necessario, di orientare la nostra attenzione in modo riflessivo verso il conoscere [das Erkennen] dell’oggetto. Scopriamo, allora, che, attraverso questa freien Blickwendung [free choi­ce of reference], gli oggetti non solo sono collegati gli uni con gli altri reciprocamente, ma che anche il loro nesso [Zusammenhang] per sé, come tale, é, da parte sua, di nuovo oggettivabile indipendentemente dagli oggetti e può diventare oggetto [Gegenstand] della conoscenza [Erkenntnis]». «Le premesse della conoscenza possono sempre diventare, di nuovo, come tali, oggetti [Gegenstande] della conoscenza» (1970: 207).

1. Le premesse della conoscenza, quelle «in virtù delle quali la cognizione è possibile» e sulle quali si fonda la libera Blickwendung, sono configurate in ciò che Mannheim chiama Ursystematisierungen (primarie o pure), cioè quelle della logica, della psicologia e dell’ontologia. Sul concetto di sistematizzazione é, quindi, imperniata la struttura della teoria della conoscenza poiché essa è fondamento di ogni con­nessione concettuale, ogni giudizio e anche ogni singolo concetto (seppur ostensivo). La sistematizzazione è creata dal soggetto logico‑trascenden­tale, ogni livello teoretico la presuppone ed è la prima ordering degli «elementi di esperienza». Le sistematizzazioni sono primarie o miste a seconda che si riferiscano rispettivamente alle scienze fondamentali (logica, psicologia, ontologia) o alla teoria della conoscenza. Le prime sono, da un certo punto di vista, universali perché possono «includere tutto “ciò che esiste in genere” [alles “überhaupt Vorkommende”] attraverso la creazione di una determinata omogeneità nei suoi nessi [Zusammenhänge]» (1970: 211). Così, dal punto di vis­ta della psicologia, tutto compare come Erlebnis, dal punto di vista dell­a logica, come Bedeutung e da quello dell’ontologia, allo stesso modo, tutto compare come seiend (1970: 211‑12). Queste tre sistematizzazioni rappresentano al­trettante vie per discutere il problema unitario della teoria della conos­cenza:

a. genetico‑psicologica, nel primato (nella Primatstreit) dell’Erlebnis, dell’esperienza, per la conoscenza;

b. della logica e della vali­dità, nel primato della Bedeutung, del significato, nella conoscenza;

c. della teoria comprensiva delle Ursystematisierungen, sempre secon­do la prospettiva della dialettica interna della Primatstreit, per deter­minare in quale regione (logica, psicologia, ontologia) deve essere fondata la conoscenza e, così, anche per determinare le premesse ultime.

In sintesi: la conoscenza si fonda sulle tre premesse ultime riscontrabili nelle tre regioni in lotta tra loro per l’acquisto della priorità. Premesse che rendono possibile la cognizione. Le premesse ultime non sono che semplici proposizioni descrittive dei meri fatti (Tatsachen) empirici, puri, del mondo degli oggetti dati nell’esperienza, come significati o come esseri, secondo il contesto prioritario.

2. Per arrivare alla teoria del­la conoscenza bisogna, quindi, passare dall’Objekt all’Erkennen in modo riflessi­vo e scoprire che il nesso, il rapporto [Zusammenhang], che collega gli og­getti é oggettivabile come tale e che, perciò, può diventare esso stesso oggetto [Gegenstand] di conoscenza.

Se la teoria della conoscenza ha come oggetto l’Erkennen stesso, anziché l’oggetto [Objekt], come si configura il rapporto che si dà nell’Erkennen? Se «die Wissenschaft, an und für sich betrachtet, ist eine Fixierung gewisser Vorstellungen in Form von Tatsachen» (1970: 218), la teoria della conoscenza sostituisce i Tatsachen da Erkenntnissen, registra [stempelt] quelli come Erkenntnissen. E così «aus der einfachen Tatsachenposition» essa lí cambia «in die Position des Erkanntseins».

La teoria della conoscenza li fa passare dalla semplice posizione di fatti alla posizione di esseri conosciuti.
Che cosa significa questo passaggio? «Significa che, afferma Mannheim, con il concetto di Erkenntnis viene coinvolta allo stesso tempo anche la posizione della Subjekt‑Objektkorrelation. La teoria della conoscenza implica che i fatti [Tatsachen] delle scienze diventino Erkenntnissen tra entrambi i membri della correlazione soggetto‑oggetto. La conoscenza implica che ci sia al di fuori di essa un oggetto [oggetto nel senso di zu‑erkennenden Objektes], il quale sia, in essa, conosciuto da un soggetto» (1970: 219).

Ma se sappiamo che tipo di oggetto usa la teoria della conoscenza, altrettanto non sappiamo del soggetto! Risponde Mannheim che tutte le teorie della conoscenza hanno una cosa in comune: i concetti di ego‑soggetto [Ichbegriffe] sono direttamente presi in prestito dalla disciplina nella quale la rispettiva teoria della conoscenza si fonda come scienza fondamentale [Grundwissenschaft]. E, in effetti, a un oggetto che si presenta come un rapporto non potrebbe corrispondere um soggetto empirico, come vedremo. Cosí, se le ultime premesse della conoscenza [Erkenntnis] saranno considerate come logiche, allora noi troveremo un soggetto logico, se saranno considerate come psicologiche o ontologiche troveremo un soggetto psicologico o ontologico (1970: 219‑20). Ed è proprio per questa pura funzionalità del rapporto oggetto-soggetto che la correlazione rappresenta un’unità logica funzionale nei confronti delle, e indipendente dalle, realizzazioni di contenuto dei concetti collegati dal rapporto di correlazione (vedasi 1970: 220). La correlazione si presenta come funzione variabile, rapporto di correlazione ancora incompiuta, correlazione indeterminata nella quale l’Erkenntnistheorie inserisce le cognizioni (tra i due poli della correlazione ).

A questo punto, Mannheim incorre in una contraddizione. Se, come Mannheim ha detto prima, la scienza ha come obbiettivo de‑soggettivizzare, trasformare immagini soggettive in fatti (Tatsachen), come si può affermare, e Mannheim lo ha fatto, che nella correlazione cognitiva soggetto‑oggetto il soggetto é preso in prestito alla scienza fondamentale a cui si rifa l’Erkenntnistheorie (logica, psicologia, ontologia)? Se la scienza produce Objektivationen non può fornire all’Erkenntnistheorie soggetti… e la psicologia stessa o la logica producono non soggetti, quando partono dai suoi dati, bensì das Bewusstsein (consciousness), nella psicologia, e Objektivität (objectivity), nella logica (1970: 222). Le discipline oggettive producono solo neutral meanings e la teoria della conoscenza si limita a fare il confronto di meanings con meanings. Il soggetto non è mai «an element among all given elements» (1969: 56) .

Ma, allora, cos’è questo Ego di cui parla Mannheim? È sempre possibi­le, afferma il nostro autore, costruire un soggetto come complemento delle oggettivazioni logiche e psicologiche: «nelle scienze, tuttavia, il soggetto non si presenta mai come oggetto [Objekt] conoscibile, ma noi possiamo ogni volta costruire un soggetto per le [in funzione delle] oggettivazioni logiche, psicologiche»; insomma, questo è ciò che noi di solito chiamiamo soggetto psicologico o logico. Ma soggetti di questo tipo non sono reali, direttamente conosciuti, intuiti (direkt erkannte, erschaute), ma solo soggetti costruiti (sondern nur konstruierte Subjekte) (1970: 222‑23). «Questi soggetti, afferma Mannheim, sono costruiti (ciò che non significa contro il loro valore di verità), giacché, comunque sia, noi non li otteniamo come oggettivazioni di un contenuto pre‑dato; essi non si presenta­no all’interno della serie delle oggettivazioni [Objektivationen], ma li ricostruiamo secondo le oggettivazioni, la sua determinatezza e il gra­do della sua Desubjektiviertheit»(1970: 224). Essi corrispondono, infine, alla kantiana Bewusstsein überhaupt, portatrice (Träger) di forme va­lide universalmente, «concetto ricostruito come correlato soggettivo di quella validità universale» (1970: 224)

Ma i soggetti sono tutti uguali? No. Essi dipendono, come la possibi­lità del grado di oggettività (Objektivierbarkeit), dalla particolarità di quella datità metalogica originaria (jener metalogischen Urgegebenheit) che noi desideriamo oggettivare e prendere dalla Erlebnisstrome (flow of experience) (1970: 223).

Afferma Mannheim: «La situazione epistemologica si realizza nel fatto che noi consideriamo come conoscenza [Erkenntnis] il dato che nelle scienze viene fuori come fatto (Tatsache), che noi lo tramutiamo in terzo membro tra entrambi i membri estremi della correlazione di Erkennenden e Zu-Erkennenden. Da qui nasce la tripla relazione dell’Erkenntnistheorie: l’Erkennende (the Knower), l’Erkannte (the Known) [l’Erkenntnis] e il Zu‑Erkennende (the To-be-known). Ogni sistematizzazione epistemologica è fondata sulla posizione di questi tre membri e ogni impostazione possibile di un problema risulta dalla (anche logicamente piena di senso) combinazione di questi tre membri (1970: 225).

La correlazione è, quindi, specifica dell’epistemologia, per cui se uno dei termini della correlazione diventa assoluto essa viene distrutta come tale (vedasi 1970: 224-225). Abbiamo, così, il seguente schema di riferimento:

Rapporto triadico. Diagramma della teoria della conoscenza in genere:

Der Erkennende – Das Erkannte ‑ Das Zu‑erkennende
Subjekt – (Die Erkenntnis) ‑ Objekt
(jeweils rekonstruiert) a. Bewusstsein
b. Objektivität

I tre concetti basici cambiano in contenuto secondo la scienza fondamentale impiegata da una particolare teoria della conoscenza.

Tra tutti e tre è il termine medio quello che cambia di più: oggettività (nelle teoria della conoscenza logica), coscienza (nella teoria della conoscenza psicologica). Il primo è occupato dai vari soggetti in quanto è ricostruito. Il terzo è ontologico dall’inizio.

Mannheim riflette sulle combinazioni possibili che la triade surriferita può subire (tre combinazioni), specie se viene assunta dal punto di vista delle scienze fondamentali quali sono la logica, l’ontologia o la psicologia. Ma ciò che qui Mannheim dice di fondamentale può essere riassunto con le sue stesse parole: «Fino a che punto è possibile dedurre dalla struttura della sistematizzazione della teoria della conoscenza sia l’uniformità [Einheitlichkeit] del pensiero epistemologico sia il Principium differentiationis che fa diventare possibile i diversi sistemi singoli?» (1970: 234). Ed ecco la ris­posta: «L’uniformità è garantita [gewährleistet] dalle correlazioni poste con assiomatica [axiomatiger] necessità; ma le differenze sono comprensi­bili partendo dal fatto che queste correllazioni ammettono logicamente mag­giori possibilità di risoluzione a causa del loro modo specifico di darsi [eigentümlichen Gegebenheitsweise]» (1970: 234). Così, la struttura logica della sistematizzazione epistemologica deve essere vista come l’asse portante di ogni tipologia e allo stesso tempo come la garanzia della sua possibilità. «La correllazione specifica di soggetto e oggetto, quindi, era, per l’ Erkenntnistheorie in genere, qualcosa costitutiva e data attraverso di essa [etwas Konstitutives und durch sie Gegebenes]» (1970: 234). La constatazione del rapporto tra loro e la sua risoluzione è compito di ogni teoria della conoscenza (1970: 234). Per esempio, nel caso specifico della teo­ria della conoscenza logica la correlazione fondamentale è quella for­ma‑contenuto, presa dalla sua scienza fondamentale, la logica, mentre in quella ontologica la correlazione diventa quella tra sostanza e contenu­to, presa dalla teoria ontologica. Tuttavia, queste sono correlazioni su­pplementari a quella che, invece, è costitutiva. Come direbbe Mannheim: se «abbiamo riconosciuto la correlazione fondamentale soggetto‑oggetto come caratteristica specifica della teoria della conoscenza, tuttavia, la realizzazione del suo contenuto concreto non è prodotta da essa. Ques­ta viene sempre chiesta in prestito a quella disciplina che per l’anali­si funge da Grundwissenschaft» (1970: 236) .

Fin qui ci siamo mossi per raggiungere uno degli scopi di ogni teoria della conoscenza, quello analitico, cioè l’analisi di ogni conoscenza possibile in modo da scoprire le sue premesse ultime. Analizzare ogni conoscenza possibile significa collocarsi da un punto di vista trascendentale per, così, determinare la struttura stessa, l’invariante di ogni cognizione; cioè significa analizzare il meccanismo stesso della conoscenza in genere. Questo l’abbiamo fatto arrivando alla caratterizzazione della correlazione soggetto‑oggetto, sua funzionalità e suoi elementi. Ma abbiamo anche visto come questa correlazione si determina nella realtà dal punto di vista contenutistico attraverso il ruolo svolto dalle premesse ultime della conoscenza ‑ logiche, psicologiche o ontologiche ‑, secondo quale di esse svolga un ruolo dominante come schema di riferimento per la concreta teoria della conosceza specifica in questione, e quale di esse possa fungere da sistematizzazione primaria (Ursystematisierung) dominante sulla quale poggia la sistematizzazione epistemologica. Quest’ultima ha una struttura invariante il cui contenuto cambia tuttavia a seconda che questa o quella sistematizzazione primaria di una scienza fondamentale occupi il posto dominante in seguito a ciò che Mannheim chiama Primatstreitlotta per la priorità.

Trattasi, ora, di raggiungere l’altro scopo della teoria della conoscenza come tale, cioè quello valutativo: di verificare se queste premesse ultime possono garantire le cognizioni fondate su di esse in modo che venga fuori una conoscenza vera (eine wahre Erkenntnis) (1970: 235), una conoscenza valida. In altre parole, di valutare le premesse ultime. In realtà, per Mannheim, «con l’Erkenntnistheorie si pone, allo stesso tempo, un compito di analisi e uno di valutazione [Wertung] » (1970: 235).

Nell’ultima parte di Die Strukturanalyse der Erkenntnistheorie Mannheim prende in considerazione il problema della valutazione (Wertung), l’analisi strutturale della valutazione epistemologica. Si tratta, quindi, di valutare la conoscenza­ (Ekenntnis) riferendola al valore verità. Le concrete cognizioni mera­mente descrittive, originariamente fuori dall’interesse epistemo­logico, sono fatti ontologici, psicologici o logici. Non contengono, in­sita, nessuna valutazione, prima che vengano presi dalla erkenntnistheoretische prospettiva, dalla gemischte Systematisierung. Sono me­re proposizioni non ancora riferite al valore verità e, più specifica­mente, a um valore‑standard di verità, a un Massstab di valore di veri­tà, come criterio di conoscenza, essendo i possibili criteri tre:

1. corrispondenza: «ogni proposizione che corrisponde alla realtà, all’essere deve valere come vera»;

2. necessità logica: «ogni proposizione che è pensata con necessità logica (conforme alle forme logiche) deve valere come vera» ‑ Richtigkeit;

3. evidenza: «ogni proposizione che è accom­pagnata da un pieno sentimento di evidenza deve valere come vera» (1970: 236).

Il criterio scelto dipende dal risultato della Primatstreit che precede l’adozione di una teoria della conoscenza spe­cifica, cioè dalla scelta delle premesse ultime della conoscenza, ovvero di sapere se esse sono ontologiche, logiche o psicologiche. 
Ma allora il valore epistemologico è importato dalle scienze fondamentali, dall’esterno? No! Il valore‑verità rimane sempre uguale in ognuno dei criteri. Quello che cambia é soltanto il Massstab. O, più spe­cificamente, ognuno dei criteri surriferiti contiene tre importanti fatto­ri: das Bewertete, cioè ciò che è valutato; der Wert, che deve valere co­me pieno di valore in rapporto a ciò che è valutato; un terzo membro che offre la misura (Massstab) per la valutazione da compiere. I due primi membri non cambiano in tutti e tre criteri di verità: das Bewertete è sempre la proposizione; der Wert, al quale è collegata, è quello della verità; solo der Massstab è diverso secondo il caso (1970: 236‑7). Come dice Mannheim: «Ciò che non cambiava in ognuno dei criteri era il valore della verità, il sottostante variabile solo der Massstab» (1970: 240).

In qualsiasi criterio di verità troviamo, quindi, due invarianti: la proposizione, a cui si riferisce il valore verità; il terzo elemento, quello che cambia, è la misura di valore Wertmassstab, essendo la sua variabilità funzione delle premesse ultime fornite dalla scienza fondamentale che fornisce il contenuto agli elementi della correlazione.

Le scienze fondamentali che sottostanno ad ognuno di questi criteri non possiedono, come tali, valori. Neanche la logica. Solo quando siamo davanti a ein zu Erreichendes (1970: 242) viene fuori la valutazione o la norma. Come dice Mannheim: «Nella sistematizzazione logica, ontologica, psicologica non c’è niente WertvollesNormatives che rimanga in mezzo a loro. Un nesso [Zusammenhang] in sé consistente diventa misurabile [massstäblich], pieno di valore, solo se visto dal punto di vista di un’altra, di una sistematizzazione estranea [e dal valore fornito da essa]. Ogni semplice stato di fatti [Tatsachenzusammenhang] può diventare valutabile, normativo per il fatto di essere messo in rapporto con un valore dal punto di vista di un altro contesto (Zusammenhang), di collocarlo come qualcosa da essere raggiunta» (1970: 242). Si capisce, perciò, che ogni valutazione debba contenere una Bezogenheit (relatedness). La teoria della conoscenza é appunto una sistematizzazione specifica proprio perché essa fa diventare possibile questa posizione al di fuori dalle sistematizzazioni universali; da qui, mettendo in rapporto i nessi (Zusammenhänge) puramente dati con il suo (della teoria della conoscenza) valore caratteristico, riesce a trasformarli in soggetti [matters] di valore (werthaften), in misure di valore (Wertmassstäben) (1970: 243).

Quindi, il carattere teleologico della conoscenza è dato dalla teoria della conoscenza. È questa che introduce la dimensione valutativa nelle proposizioni puramente descrittive delle Ursystematisierungen.
In sintesi, e come afferma Mannheim, la teoria della conoscenza deve la sua coerenza specifica ‑ nonostante la sua dipendenza da scienze fondamentali ad essa estranee ‑ a tre fattori fondamentali: 1. a un’ impostazione specifica; 2) a un valore sui generis; 3. a un suo rapporto ultimo specifico fondamentale (la correlazione soggetto‑oggetto) la cui posizione è assiomatica e che deve realizzarsi unendosi interamente alla sfera teoretica [necessaria per l’integrazione della sfera teoretica] (1970: 244 ;1969: 72).

Il valore‑verità della teoria della conoscenza introduce la dimensione valutativa nelle semplici proposizioni delle Ursystematisierungen che vengono trasformate secondo lo schema di riferimento della correlazione fondamentale soggetto‑oggetto. Cioè la correlazione fondamentale trasforma le proposizioni teoretiche in conoscenze alle quali si applicano i diversi criteri di verità secondo l’affermazione di questa o quella scienza come Grundwissenschaft.

La teoria della conoscenza possiede, cosí, una natura costruttiva, é una konstruierende Wissenschaft, una costruzione in opposizione ad una descrizione immediata. Questo lo abbiamo verificato quando abbiamo esaminato la costituzione dei diversi Ichbegriffe. Siamo, quindi, davanti ad un vero e proprio schema di riferimento.

Che conclusioni possiamo ricavare da quanto abbiamo detto finora?

a. che siamo davanti ad un testo non storicistico, giacché il temporale si presenta come un mero mezzo per 1’attualizzazione della verità extratemporale.

b. che la teoria della conoscenza si presenta come lo schema di riferimento unitario che finalizza le cognizioni empiriche delimitate dalle tre scienze fondamentali: logica, psicologia e ontologia.

c. che la teoria della conoscenza è una scienza costruttiva, così come nella sua Systematisierung il soggetto è un costrutto.

d. che questo soggetto corrisponde al modello del soggetto delle scienze naturali, cioè si distingue da quel soggetto delle scienze storico-sociali a cui si riferiscono i testi del dopo ’23.

La sociologia della conoscenza

Il nocciolo teorico della mannheimiana sociologia della conoscenza risiede senza dubbio nel tentativo di superamento dei criteri assolu­ti di fondazione della validità o del significato, attraverso la messa a punto di un meccanismo di funzionalizzazione (Funktionalisierung) del rapporto tra essere e pensiero, concepito come connessione obbligata dopo che entrambe le sfere si sono rispettivamente autonomizzate, ad opera del positivismo, la prima, e dell’apriorismo formale, la seconda. [A questo riguardo, nella replica di Habermas ad un pamphlet di Hans Albert – Vários, 1972: 229-259 – si può confermare la consapevolezza che Mannheim aveva, nonostante tutto, del problema della validità e anche la vicinanza della sua posizione – esposta nello scritto del 1925 – a quella dello Habermas critico del razionalismo critico di Popper e di Albert].

Lo scritto del ’22 non risponde, infatti, a questa esigenza di storicizzazione della validità, neanche nello stesso campo storico‑sociale, poiché Mannheim cerca di trarre la validità del pensiero teorico sulla storia da una logica statica basata su principi atemporali e, quindi, incondizionata. La storia, infatti, non è, qui, che un semplice mezzo o strumento per la materializzazione di una sfera trascendentale e intemporale, dei diversi punti di vista ancorati in una Ragione intemporale. Perciò, la sociologia non può svolgere un ruolo con dignità concettuale, giacché rimane ad un livello soltanto empirico o subalterno. Se la storia svolge un ruolo puramente strumentale, la sociologia non potrebbe farne di più. Non viene nemmeno considerata come scienza fondamentale a cui può riferirsi la teoria della conoscenza. Invece, nel periodo storicistico essa svolge un ruolo fondamentale nella verificazione della validità delle forme mentali, dei cosiddetti stili di pensiero, nella valutazione dei significati.

Si tratta, infatti, di un’opera prestoricistica.

Proprio perciò il primo scritto che veramente imposta il problema del condizionamento storico‑sociale dei significati è quello del 1923, Beiträge zur Theorie der Weltanschauungs‑Interpretation. Viene fuori, qui, esplicitamente l’importanza del senso (Sinn) nella determinazione della natura della conoscenza nelle scienze storico‑culturali rispetto a quelle naturali ed esatte. Ad esempio: mentre l’oggetto naturale si presenta sempre in un contesto fisico spazio‑temporale o nel mero mondo psichico‑temporale (in der bloss zeitlichpsychischen Welt), 1′ oggetto culturale (Kulturobjekt) è sempre una formazione di senso (Sinngebilde) (Mannheim, 1970: 105).

Il concetto di senso ‑ assieme al concetto di totalità semplice – dominerà l’impostazione mannheimiana sulle scienze storico‑sociali, pur subendo l’interferenza di contesti teorici che cambiano durante la sua riflessione. E questo fatto, cioè la presenza costante del tema del senso, eserciterà un’influenza decisiva sul rapporto tra essere e significato nelle scienze storico‑sociali. «Così, l’analysis of meanings sarà il centro della nostra tecnica», come si può leggere nell’opera sul pensiero conservatore (Mannheim, 1969: 74-164).

Questo concetto, da un lato, rinvia, come sappiamo, a Dilthey e traduce quel nesso interno tra l’io e il mondo che avviene nel Verstehen storico‑sociale, nella “sympathetic intuition” (M. Ginsberg). Si tratta della specificità del mondo storico‑sociale, il vero mondo degli uomini – «Die Gesellschaft ist unsere Welt», afferma Dilthey in Einleitung in die Geisteswissenschaften, del 1883 -, per opposizione all’estraneità della natura – «Die Natur ist uns fremd» (Dilthey, 1959: I, 36). La natura va spiegata (erklären) – ha una validità formale -, non compresa (verstehen). La natura si dà analiticamente alla teoria, si scompone e si ricompone astrattamente e può essere astrattamente valida. La società si dà unitariamente, como totalità, in un nesso di senso finalisticamente penetrato dalla vita stessa che intercorre tra il soggetto e il mondo. In questo collegamento intimo si attua, mediante la volontà, il processo di trasposizione (Übertragung) (1959: I, 20) del soggetto attivo nel mondo, dando vita a fatti (avvenimenti) e ad esseri spirituali [geistige Tatsachen e geistige Wesen], portatori di senso, espressioni dei fini della vita umana [menschliche Lebenszwecke] (1959: I, 64) i quali sono le vere forze formatrici [Bildungskräfte] della società. La validità è, quindi, penetrata finalisticamente.

Dall’altro, l’emergenza della tematica del senso come discriminatrice della metodologia delle Geisteswissenschaften rispetto alle Naturwissenschaften esprime l’emergenza storico‑sociale e istituzionale moderna della volontà o soggettività storico‑sociale che si esprime non soltanto nelle opere letterarie, nella scrittura, nell’arte o nell’agire comunicativo, nella scienza e nella tecnica, ma anche negli istituti storico‑sociali politico‑giuridici, non organico‑naturali, costruiti dalla moderna soggettività giuridicamente libera e in grado di dare forma a concreti istituti materiali.

La tematica del senso ha in queste idee centrali il suo nucleo razionale. Mannheim riprende Dilthey in modo assai evidente nel testo del ’23 surriferito, in Historismus, del ’24, ma anche in Ideology and Utopia, proprio nel testo scritto in inglese per l’edizione del ’36: «here that approach which, following Dilthey, I should like to designate as the understanding of the primary interdipendence of experience [das verstehende Erfassen des “ursprünglichen Lebenszusammenhanges”] comes into its own» (Mannheim, 1972: 40).

In Historismus, analizzando le posizioni di Troeltsch, distingue le scienze culturali o storico‑sociali dalle scienze naturali, esattamente come il Dilthey di Einleitung in die Geisteswissenschaften, poggiando la distinzione sul medesimo concetto di soggetto teorico. Il soggetto delle scienze storico‑sociali è l’unico soggetto reale che, proprio per questo, penetra finalisticamente l’oggetto di cui partecipa in quanto elemento organico della totalità vitale e, quindi, penetra anche lo stesso atto cognitivo. Invece, il soggetto delle scienze naturali è irreale, mero costrutto/complemento dell’oggetto, semplice funzione delle oggettivazioni scientifiche astrattamente ricostruite, da questo puro soggetto teorico. Ne risulta, quindi, una validità meramente formale, mentre il processo cognitivo nelle scienze storico-sociali viene pervaso dall’organicità del rapporto soggetto‑oggetto.

Questa era, come abbiamo visto, l’impalcatura teoretica della tesi del ’22 per ciò che riguardava il soggetto in genere, compreso il soggetto della psicologia come scienza fondamentale.

Se è vero che il soggetto storico‑sociale è un elemento dinamico all’interno della totalità storico‑sociale, e non essendo una mera funzione dell’oggetto naturale, allora la sua collocazione all’interno di quella totalità (der geschichtsphilosophische Standort des Betrachters) dovrà interferire nello stesso processo cognitivo, cioè proprio nelle «categorie della comprensione dell’oggetto, nel principio di scelta e sua direzione» [in die Kategorien der Gegenstandserfassung, in das Auswahlprinzip und dessen Richtung], «nel senso delle categorie costitutive della comprensione dell’oggetto» (im Sinne der konstitutiven Kategorien der Gegenstandserfassung) (Mannheim, 1970: 267). Ne consegue un circolo interno obbligato tra aspirazione e conoscenza, in quanto parti della stessa totalità (ein inniger Zirkel zwischen Wollen und Erkennen besteht, wie sie gleichsam Teile derselben Totalität sind) (1970: 269), e altresì ne discende la pregnanza della posizione storico‑filosofica (sociologica) ‑ Standortsgebundenheit ‑ e delle aspirazioni pratiche dell’uomo ai fini del processo cognitivo (1970: 269). La pregnanza della posizione dell’osservatore‑soggetto (des Betrachters) scaturisce evidentemente dalla sua presenza all’interno dell’oggetto stesso (soggetto‑totalità‑oggetto), dalla sua partecipazione attiva alla vita dell’oggetto, cioè alla vita storico‑sociale.

Chiave di volta di tutto questo processo è, quindi, il concetto di totalità vitale‑sociale, organica, che media lo stesso atto cognitivo, il rapporto tra il soggetto teorico e il soggetto storico‑sociale (oggetto) che si esprime nelle oggettivazioni di senso, cioè il rapporto tra il soggetto teorico e le oggettivazioni di senso, i prodotti o opere socio‑culturali che risultano dall’azione della volontà dei soggetti storico‑sociali o soggettività sociale.

L’essere sociale è così investito da questo nesso finalistico di senso che risulta dall’emergenza sociale della volontà e che, quindi, permea – come il sangue le arterie ‑ tutta la totalità sociale, configurandola come una totalità dotata di senso. Il senso investe l’essere attraverso l’emergenza della volontà.
In questo modo, però, Mannheim non sarà in grado di andare oltre differenziazioni meramente ermeneutiche all’interno della totalità stessa, in quanto totalità organica significante, Gestalt, che si dà immediatamente in una intuizione e in modo non‑differenziato! [Nello scritto del ’23 surriferito le differenziazioni ermeneutiche interne che riguardano il Sinn delle oggettivazioni culturali, cioè quelle tipicamente dotate di senso, perché risultanti dall’intervento della volontà ‑ quale molla della storia, direbbe Dilthey ‑ all’interno del processo finalistico quale è l’azione sociale, sono tre: senso oggettivosenso espressivo e senso documentario; Manheim, 1970: 106-108].

In questa totalità non è possibile assegnare una collocazione positiva, sociologica, differenziata al soggetto perché essa è organicamente espressiva e il soggetto vi partecipa in modo diretto senza mediazioni, in quanto soggetto culturale. [Le mediazioni delle totalità di senso, o Weltanschauungen, e degli intellettuali sono false mediazioni perché scisse dal dato positivo empirico‑sociologico, ridotto a molteplice, indifferenziato].

Mannheim dovrà, in qualche modo, assumere (criticamente) la tradizione che più ha operato distinzioni a livello sociologico della totalità, cioè il marxismo e la teoria delle classi, dell’ideologia e della determinazione socio‑economica del pensiero. Lo scritto del 1925, Das Problem einer Soziologie des Wissens, mette in rilievo l’importanza del contributo marxista per la costituzione della sociologia della conoscenza, e cioè proprio la differenziazione economico‑sociale e ideale (ideologica) della totalità.

Mannheim, in questo importante saggio, descrive i momenti fondamentali della costituzione della sociologia della conoscenza: 1) autorelativizzazione del pensiero e della conoscenza; 2) emergenza del sociale e della sociologia; 3) funzionalizzazione economica del pensiero o apparizione della coscienza che smaschera; 4) aspirazione alla funzionalizzazione totale (1970: 321). E analizza le scuole teoriche che, in un modo o nell’altro, si sono avvicinate al nucleo centrale di questa nuova disciplina: positivismo ‑ marxismo incluso -, apriorismo formale, fenomenologia moderna (Max Scheler) e storicismo.

Nonostante il marxismo compaia come vero momento subordinato o fattore tra i fattori della costituzione della sociologia della conoscenza, non c’è dubbio che la teoria marxista dell’ideologia è il vero modello a cui si ispira Mannheim ed è il vero interlocutore dell’impostazione storicistica (Di1they ‑ Rickert ‑ Weber) del nostro autore. Ovvero: egli cerca di integrare la teoria marxista dell’ideologia in un contesto teorico più ampio che raccolga le conquiste teoriche del positivismo entro una prospettiva così ampia da farle coesistere con le conquiste della scuola aprioristica formale, cioè con l’affermazione dell’autonomia relativa del significato rispetto all’essere. La tematica del senso serve a questo scopo proprio perché facendo diventare espressivo il positum sociologico, riconvertendolo in nesso di senso, stabilisce un ponte tra quello e il mondo formale, per cui la sociologia della conoscenza può avviare il processo di funzionalizzazione del pensiero all’essere senza annullare le conquiste di quelle dottrine antitetiche e senza cadere in una teoria dell’ideologia che si limiti a mettere in luce la falsità delle idee, a smascherarle, funzionalizzandole direttamente alla sfera economica, alla sfera dell’interesse. La sociologia della conoscenza amplifica quest’angusta funzionalizzazione non solo perché essa si riferirà all’intera sfera dell’essere sociale, non solo economica, ma anche perché opererà con tutta la sfera ideale, non solo con le idee false. Questa operazione è, poi, possibile perché tra l’essere sociale e l’essere ideale intercorre un nesso finalistico di senso che li configura come sfere significative, socio‑ideali, storico‑ideali. La mediazione tra essere e pensiero viene, quindi, attuata dalle formazioni di senso (stili di pensiero, Weltanschauungen) e dai loro agenti, gli intellettuali socialmente svincolati, ma storicamente ed eticamente impegnati (engagiert) (1970: 378-381). Il carattere naturalistico ed irrazionalistico dell’interesse viene superato dalla sua integrazione storico‑sociale, cioè dal suo tramutamento e configurazione etico‑assiologica come elemento significante di una nuova totalità organica ed espressiva (dotata di senso).

Da questo momento, l’essere può fondare la validità o il significato solo se investito da questo finalismo etico‑assiologico, o meglio, se si configurerà storicamente e socialmente come sfera etico‑assiologica. La funzionalizzazione del pensiero all’essere non potrà più assumere un carattere deterministico o naturalistico. Sarà attuata, invece, attraverso la mediazione delle totalità di senso, o Weltanschauungen, che rappresentano la vita sociale, e degli intellettuali. L’atto cognitivo verrà, quindi, riferito, alle concezioni del mondo che, a loro volta, indirettamente ‑ perché elaborate da intellettuali socialmente svincolati ‑, verranno sociologicamente funzionalizzate, cioè messe in condizioni di delimitare un determinato gruppo sociologico. Si legge nel saggio sul pensiero conservatore: «At the heart of this method is the concept of a style of thought. The history of thought from this point of view is no mere history of ideas, but an analysis of different styles of thought as they grow and develop, fuse and disappear; and the key to the understanding of changes in ideas is to be founding in the changing social background, mainly in the fate of the social groups or classes which are the “carriers” of these styles of thought» (Mannheim, 1969: 74).

Questo processo di funzionalizzazione immanente e sociologica dei rapporti essere‑pensiero viene concepito da Mannheim anche con altre categorie più ampie di quelle che abbiamo visto: l’una è quella di totalità o unità sintetica storico‑temporale, l’altra è quella di conflittualità‑concorrenza (un’altra ancora è quella di generazione). Anche qui Mannheim cerca di superare la prospettiva marxista in quanto studia il tipo di rapporto esistente tra il conflitto teoretico‑culturale e il conflitto sociale. O più specificamente: la concorrenza ha come oggetto l’interpretazione generale dell’essere ed è, in ultima istanza, motivata dal bisogno di orientamento nel mondo [consenso, monopolio, concorrenza atomistica, concentrazione sono le fasi di formazione dell’interpretazione generale dell’essere] (1970: 575).

La presenza della concorrenza (nel pensiero) tra stili di pensiero o concezioni del mondo porta non soltanto alla loro polarizzazione, ma anche alla sintesi e, quindi, anche alla selezione storica per interpenetrazione delle totalità di senso. Essa provoca, inoltre, quello che Mannheim chiama cambiamento di funzione, immanente o sociologico, cioè il passaggio di concetti da un sistema di pensiero all’altro o il cambiamento di significato di un concetto quando questo viene adottato da un gruppo sociale diverso, cioè quando passa ad un sistema di pensiero non solo diverso, ma che si riferisce ad un gruppo sociale diverso da quello a cui si riferiva il sistema precedente.

Mannheim e il marxismo

É evidente l’influenza dominante del marxismo sul modello della sociologia della conoscenza mannheimiana. Si trattava, per Mannheim, fondamentalmente di introdurre una maggiore apertura della teoria rispetto al riduzionismo positivistico del marxismo (volgare) che egli conosceva, cioè un marxismo appiattito su due o tre formule generiche, come risulta dall’analisi di tutti i testi in cui Mannheim si riferisce a Marx o al marxismo.

Mannheim sovrappone, quindi, ai concetti di struttura, determinazione economico‑sociale, interesse, riflesso, ideologia, i concetti di totalità, funzionalizzazione del rapporto essere‑pensiero, impegno, concorrenza‑conflittualità socio‑ideale, intellighentsia svincolata, mediazione, Weltanschauungen, stili di pensiero, totalità di senso/ideologia totale.

Sappiamo che Mannheim non conosceva gli importanti testi di Marx che sarebbero stati pubblicati dal 1927 in poi (Kritik des Hegelschen Staatsrechts, Ökonomisch‑philosophische Manuskripte aus dem Jahre 1844, Die deutsche Ideologie, Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie 1857-1858). La sua conoscenza del marxismo era davvero limitata se constatiamo i pochi scritti di Marx che vengono citati nei suoi lavori. Mannheim prendeva in considerazione piuttosto le formule generali di un marxismo ufficiale che si stava consolidando. Oltre Marx, cita qualche testo di Lenin e Fondamenti del leninismo, di Stalin. Si sa, invece, che l’influenza di Lukács è stata importante, anche come mediatore tra Mannheim e Marx. Il concetto di totalità che Mannheim attribuisce a Marx viene certamente assunto dal nostro autore sotto l’influenza di Lukács (si veda Geschichte und Klassenbevusstsein, del 1923), in quanto cioè viene assimilato al concetto hegeliano. Del resto, egli stesso conferma l’influenza di un uomo con cui per anni ed anni ha scambiato corrispondenza filosofica (De Luca, 1977).

Il tipo di lettura che Mannheim compie di Marx non cambia sostanzialmente in Ideology and Utopia, cioè permane il tentativo di precisare i termini del superamento della classica teoria dell’ideologia. Evidente a questo riguardo è il passaggio dal concetto parziale di ideologia al concetto totale di ideologia, che è nuovo, ma che riproduce il concetto di stile di pensiero (Weltanschauung o di totalità di senso).

In sintesi, mentre l’ideologia parziale riproduce i contenuti psichico-ideali dei singoli soggetti, l’ideologia totale s’identifica con la visione del mondo di un intero gruppo sociale. Quella si riferisce alle elucubrazioni individuali, per usare il linguaggio di Gramsci, questa ad una concezione storicamente radicata in un intero gruppo sociale. Ci riferiamo al saggio del 1931, Wissenssoziologie. Il problema della sociologia della conoscenza riguarda quest’ultimo concetto, la sua funzionalizzazione sociologica, e si esprime epistemologicamente nel concetto di prospettiva, cioè, in Ideology and Utopia, nel modo «in which one views an object, what one perceives in it, and how one construes it in his thinking» (Mannheim, 1972: 244).

Prospettiva

Tuttavia, questo concetto Mannheim lo prende originariamente, in Historismus (1970: 272), dallo Husserl delle Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie (Husserl, 1976: I, 87-102; v. spec. §§ 41-46). Ma in modo palesemente contraddittorio!

Per Husserl solo gli esseri spaziali, visibili, le cose, possono darsi, presentarsi in prospettiva, per adombramenti (Abschattungen, profiles), mentre gli Erlebnisse si danno in modo immanente, assoluto, in una intuizione, quindi, mai per adombramenti. Per Mannheim, invece, questi Erlebnisse, i contenuti di vita storico‑spirituale, si danno in prospettiva, «in geistigen und seelischen Abschattungen» (Mannheim, 1970: 272), secondo la posizione dell’osservatore‑soggetto, mentre gli oggetti naturali, gli esseri cosali o spazio‑temporali e fisici, o meglio, le oggettivazioni scientifiche, si presentano rigide ed immobili davanti ad un soggetto (1970: 290-291) che, non essendo altro che una funzione o consapevolezza in sé, dedotta dall’oggettivazione scientifica – e qui Mannheim segue evidentemente il Dilthey dell’Einleitung -, non può, ovviamente, che riprodurre astrattamente la struttura stessa dell’oggetto.

Si tratta, quindi, di una doppia inversione rispetto alla natura dell’oggetto storico‑sociale (Erlebnis) e dell’oggetto cosale‑spaziale. La radice della contraddizione è la giustapposizione acritica di una prospettiva di matrice empirista, che ricorre al modello visualista o rappresentativista husserliano della conoscenza, con quella metafisico‑vitalista di matrice diltheyana, che fonda la conoscenza storico‑sociale sulla teoria della comprensione o intuizione interna simpatetica, cioè non staccata dall’oggetto stesso, come, invece, esige il modello visualista (opposta, quindi, all’Erklären). Per inciso, tengo a precisare che la «riduzione eidetica» husserliana é, in effetti, centrale nel processo di conoscenza. Ma che cosa è l’eidos? Proprio l’oggettivazione simbolica dell’atto di vedere, cioè una derivazione sostantiva dell’aoristo del verbo oráo (eídon).

Mannheim subisce fortemente l’influenza dell’apriorismo formale, della fenomenologia e dello storicismo tedesco e, perciò, vengono fuori contraddizioni che risultano dalla coesistenza della tendenza alla spiegazione sociologica positiva della conoscenza, per fondarne positivamente la validità, con quelle influenze teoriche menzionate, oltre che dalle contraddizioni tra queste stesse correnti teoriche. Si veda, come esempio, la critica mannheimiana all’apriorismo formale e alla fenomenologia scheleriana: il primo, accentuando positivamente la rilevanza della sfera della validità rispetto a quella dell’essere, tralascia l’unità organica tra queste sfere; la seconda pensa la struttura in termini di istinti puramente naturali e, partendo da questo elemento estraneo al senso, e perciò non storico, cerca di capire ciò che storico è. Nella sociologia della conoscenza, invece, gli istinti (Triebe), nella struttura, si presentano già come forme storicamente determinate di senso (1970: 365).

Sottolineiamo ancora queste due idee centrali dell’operazione che Mannheim compie per non restare nel naturalismo positivista che egli attribuisce al marxismo: 1) essere e pensiero sono distinti, ma in connessione intima, in quanto attraversati finalisticamente dal senso; 2) gli istinti (Triebe), storicamente, sono già etico‑assiologicamente configurati come forme storicamente determinate di senso.

Sono queste due tesi che permettono a Mannheim di sublimare il naturalismo positivista dell’economicismo marxista.

L’assunzione sociologica del concetto di prospettiva si verifica soprattutto nel saggio del 1931, in Ideology and Utopia. Il modello visualista serve ancora a Mannheim, ma soltanto come termine analogico o mera metafora, in quanto la collocazione dell’osservatore possiede un carattere sociologico. Ma un carattere sociologico speciale: dotato di senso. E cioè l’osservatore è in relazione con le totalità di senso o ideologie totali, non essendo meccanicamente determinato né dalla pura natura (puri istinti naturali: Scheler) né dal puro interesse (economico: Marx), bensì dalla loro (interessi e istinti) configurazione storico‑sociologica spirituale come norme‑valori organizzati in sistemi, cioè in Weltanschauungen. Quindi, whichwhat e how dipendono fondamentalmente dalle configurazioni etico‑ideali della struttura sociale‑naturale. La prospettiva non rinvia, quindi, ad una qualsiasi soggettività empirica, ma alla soggettività sociale che si oggettiva e si esprime in queste configurazioni etico‑spirituali, in queste Weltanschauungen, e all’intellighentsia libera, socialmente svincolata. Solo così si può spiegare perché Mannheim caratterizza la prospettiva con criteri meramente interni ad un sistema di pensiero, cioè criteri solo indirettamente, o allusivamente, sociologici: «analysis of the meaning of the concepts being used; the phenomenon of the counterconcept; the absence of certains concepts; the structure of che categorial apparatus; dominant models of thought; level of abstraction; and the ontology that is presupposed» (1972: 244).

A questo punto la prospettiva direttamente sociologica sparisce e viene sostituita da quella etico‑culturale delle Weltanschauungen, o ideologie totali, cioè dalla configurazione etico‑culturale della posizione strutturale‑sociologica (naturale) dell’osservatore‑soggetto. Diventa difficile, quindi, negare la validità della critica di Merton che attribuisce a Mannheim l’assunzione acritica del rickertiano-weberiano concetto di Wertbeziehung (Merton, 1968: 559; e 543-562; Parsons, 1978: 138). Perciò, difficile sarà anche la risoluzione del problema della validità, dell’oggettività della conoscenza o della fondazione sociologica della validità, giacché, a differenza di Weber ‑ e avvicinandosi più a Rickert ‑, Mannheim assume la fondazione extra‑teorica della validità, almeno come fattore di relativizzazione.

La concorrenza-conflitto dei sistemi di pensiero sta a dimostrare che questi si oppongono e sono diversi, trovando la sintesi‑selezione solo quando un’epoca di concorrenza si presenta conchiusa.

Da un lato, nello scritto sulla concorrenza, del 1929 (1970: 610), Mannheim trova come criterio dell’oggettività o della sintesi globale prospettica, la funzionalità etico‑ideale, l’utilità, in quanto le sintesi vengono compiute secondo la maggiore o minore funzionalità delle prospettive per l’orientamento dell’uomo nel mondo. Dall’altro, la sintesi storica passata (compiuta) si presentava come il criterio storico‑ontologico di scelta, dell’oggettività, poiché la «sintesi significa selezione».

Ora, avrà la funzionalizzazione delle prospettive all’essere storico‑sociale presente lo stesso valore che ha la funzionalizzazione dei pensieri passati rispetto alle totalità del divenuto già concluso di cui si parla nello scritto del 1925?

«Nella misura in cui le epoche sono già concluse (…)», dice Mannheim, «e il divenuto si presenta come totalità, la funzionalizzazione dei pensieri passati in rapporto al divenuto è possibile» (1970: 368-369). Però, per ciò che riguarda l’essere storico-sociale presente, a meno che la totalità presente sia scientificamente ben determinata e differenziata, non è possibile condurre una simile operazione. Solo considerando il presente sempre come totalità già conclusa e la storia come aggregato di assoluti, cioè compiendo l’ipostasi illegittima del presente, sarebbe possibile condurre un’operazione simile a quella che, forse, è la premessa fondamentale della ricerca storica.

Nel presente, stili di pensiero diversi sono ugualmente validi al livello del riconoscimento della loro struttura immanente e del loro carattere funzionale e relazionale. Così, è possibile tradurre «the results of one (sistema di pensiero) into those of the other, and to discover a common denominator for those varying perspectivistic insights» (172: 270). Arriviamo, così, ad un criterio di validità o oggettività sostanzialmente come intersoggettività, cioè alla scoperta di una struttura etico‑spirituale fondamentale dominante e semplice nella quale si possano riconoscere i soggetti sociali a cui corrispondono diversi sistemi di pensiero e alla quale la loro struttura immanente può essere funzionalizzata.

Ma questi fondamenti dell’oggettività possibile della conoscen­za non annullano per Mannheim l’esistenza di criteri di distinzione tra prospettive. Criteri che, tuttavia, sono meramente empirici perché poggiati su valori storicamente contingenti. «As in the case», afferma Mannheim, «of the visual perspective, where certain positions have the advantage of revealing the decisive features of the object, so here pre‑eminence is given to that perspective which gives evidence of the greatest comprehensiveness and the greatest fruitfulness in dealing with em­pirical materials» (1972: 271). Quindi, sempre analogicamente con la pro­spettiva visuale, nella prospettiva vi sono criteri di rilevanza: «the greatest comprehensiveness e the greatest fruitfulness in dealing with empirical materials», proprio come le decisive features erano fon­damentali nella prospettiva visuale. Essendo la «più grande compren­sività» e «fecondità» nel trattamento del materiale empirico cri­teri interni alla prospettiva, dipendono anche loro dal tipo di siste­ma etico‑ideale che li fonda, sistema che a sua volta rinvia all’essere storico‑sociologico, ai gruppi sociologici etico‑idealmente determi­nati. Ma proprio perché anche la realtà sociologica empirica è etico­‑idealmente determinata, delimitata, scelta, i valori si sovrappongo­no alla realtà empirica che, così, ne è costituita. Dipende, quindi, dai valori l’estensione e la profondità della comprensione raggiunta in una determinata prospettiva. Si ritorna sempre al binomio Rickert-Weber .

In Ideology and Utopia Mannheim sottolinea insistentemente il carattere sociale, collettivo, profondo del senso che penetra o si esprime in ogni pro­spettiva. O meglio: quell’idea di comunanza significativa del sog­getto con l’oggetto storico‑sociale, di syn‑patheia tra loro, viene qui assunta come partecipazione materiale nella vita sociale colletti­va. Sottolinea, quindi, il carattere materiale‑sociologico della col­locazione della prospettiva e del soggetto – quasi riprendendo quel Lukács di Geschichte und Klassenbewusstsein che faceva dipende­re la validità di un sistema di pensiero dalla posizione strutturale dell’osservatore‑soggetto rispetto alla totalità (storico‑sociale) -, accentuando l’ «inconscio strutturale» o l’irrazionalità oggettiva di questa posizione strutturale rispetto alla totalità. Ebbene, anche Mannheim riconosce esplicitamente la presenza e l’importanza di una irrazionalità strutturale, l’«incoscio collettivo». Tuttavia esso si fonda nella sfera impulsionale‑volitiva (vedi Scheler) della to­talità sociale, nelle azioni collettive, anziché, come nella prospet­tiva marxista, nella sfera economico‑sociale: “However, once the fact has been perceived that the largest part of thought is erected upon a basis of collective actions, one is impelled to ricognize the force of the collective unconscious. The full emergence of the sociological point of view regarding knowledge inevitably carries with it the gradual uncovering of the irracional foundation of rational knowledge » (1972: 28).

Al [«dahinter stehenden»] «sinnvoller Seinszusammenhang», di Ideologische und soziologische Interpretation der geistigen Gebilde, per esempio, a cui veniva funzionalizzata una formazione spirituale [geistiger Gehalt], si sostituisce qui, con l’emergenza del punto di vista sociologico rispetto alla conoscenza, l’inconscio collettivo, fondamento strutturale delle azioni collettive­ che esso penetra significativamente, e, perciò, emerge anche l’irrational foundation della conoscenza razionale insita in ogni azione sociale (conoscenza razionale – azione razionale – azione – inconscio collettivo). La determinazione extra‑teorica della conoscenza e della validità si trova nel fondamento pulsionale collettivo delle azioni sociali e, quindi, anche dell’azione cognitiva. Il senso che penetra la conoscenza teorica e l’azione sociale ha la sua radice ultima nell’inconscio collettivo: «When we speak», dice Mannheim, «of the fundamental intent of the mind (intentio animi) which is inherent in every form of knowledge and which affects the perspective, we refer to the irreductible residue of the purposeful element in knowledge which remains even when all conscious and explicit evaluations and biases have been eliminated» (1972: 266). Cioè, la presenza di questo residuo irriducibile dell’elemento finalistico (purposeful element) inevitabile che condiziona la prospettiva e, perciò, la conoscenza stessa, rinvia ad una sfera irrazionale istintuale‑volitiva che scatena le azioni storico‑sociali e le finalizza secondo valori pre‑teorici o pre‑razionali, secondo fini radicati nell’inconscio collettivo.

Il contesto ontologico dotato di senso viene qui espresso o tradotto nel linguaggio dell’inconscio collettivo, viene cioè riferito alle motivazioni strutturali della società, agli impulsi‑pulsioni collettivi.

Siamo, quindi, sempre davanti ad una fondazione irrazionale, o non‑razionale, del momento teorico e della sua validità, che non si identifica col momento dell’interesse economico marxista, ma con le motivazioni etico‑istintuali dell’inconscio collettivo ‑ quale struttura dotata di senso (istinti‑volizioni‑valori) ‑ presenti finalisticamente in ogni azione sociale e, quindi, nell’atto cognitivo stesso (come intentio animi). Mannheim si avvicina al weberiano concetto di azione sociale e allo scheleriano movimento pulsionale‑istintuale strutturale.

La validità viene, così, condizionata dalla sfera irrazionale, dal finalismo non razionale insito nella totalità della vita sociale e, perciò, la conoscenza dovrà essere funzionalizzata a questa sfera. Vi è, quindi, necessità di correlazione fra essere/esistenza e significato/validità, Sein e Geltung.

La presenza di questo finalismo strutturale significativo nell’atto cognitivo, di questa intentio animi, corrisponde alla presenza di impulsi volitivi configurati come fini‑valori che attraversano l’azione sociale e che, quindi, portano all’emergenza dell’attivismo del soggetto nella stessa sfera cognitiva: «In other words», afferma Mannheim, «the sociology of knowledge regards the cognitive act in connection with the models to which it aspires in its existential as well as its meaningful quality» (1972: 268; sottolin. mio) , come «an instrument for dealing with life‑situations at the disposal of a certain kind of vital being under certain conditions of life» (1972: 268).

Questa connessione tra aspirazione e significato nei fenomeni socio‑intellettuali, che li rende fenomeni qualitativamente unici, esige l’utilizzazione fondamentale della comprensione («the problem of perspectivism in the sociology of knowledge refers, first of all, to what is understandable in social phenomene») (1972: 273) proprio perché vengono penetrati finalisticamente e configurati come unità espressive («the wealth of unique») irriducibili a qualsiasi nesso causale e formale esterno.

La comprensione è, quindi, la forma di conoscenza propria di questo carattere unico, qualitativo ed espressivo dei fenomeni socio‑intellettuali. E ciò proprio perché in questi fenomeni si esprime un finalismo etico‑assiologico che emerge dal profondo della società, cioè dall’inconscio collettivo o dall’essere sociale dotato di senso.

La sociologia della conoscenza è, a mio avviso, una rielaborazione critica della teoria marxista dell’ideologia («the sociology of knowledge actualy emerged with Marx, whose profoundly suggestive aperçus went to the heart of the matter») (1972: 278 ), nonostante Mannheim la colleghi a diversi autori classici, come Nietzsche, Dilthey, Freud, Pareto, Jerusalem, Lukács e Scheler. Se l’impostazione marxiana del condizionamento spiega l’impalcatura di questa disciplina, il suo superamento si deve all’appropriazione mannheimiana delle tesi fondamentali del trinomio Dilthey-Rickert-Weber e, nel’ultimo periodo, forse di Freud, Lukács e Scheler.

L’impegno

Questa rielaborazione può essere riassunta così: il condizionamento sociologico del pensiero non è né meccanico né diretto perché solo le configurazioni di pensiero (stili di pensiero, Weltanschauungen, totalità di senso, sistemi di pensiero) si possono collegare o, meglio, funzionalizzare alle configurazioni storico‑sociali. Ma questa funzionalizzazione viene fuori attraverso una mediazione, per così dire, socio‑intellettuale, cioè attraverso l’intellighentsia libera, socialmente svincolata (1972: 10-11). Così, la marxista mediazione psichico-sociale dell’interesse economico viene sostituita dalla più ampia mediazione etico‑culturale dell’impegno (Engagierung) verso una determinata concezione del mondo (Weltanschauung), anziché verso particolari impulsi egoistici di possesso (interesse). Questo si spiega con il rifiuto mannheimiano dell’assunzione naturalistica o positivistica di una struttura che, invece, secondo Mannheim, si presenta già come storia etico‑culturalmente e assiologicamente configurata, cioè dotata di senso (sinnvoll). Quindi, né lo Scheler degli istinti puramente naturali (scissi dalla gerarchia dei valori) né il Marx del puro interesse positivistico!

Da qui l’ importanza che assumono le totalità di senso, le Weltanschauungen, per la costituzione o composizione di quella vita sociale originaria dotata di senso che coinvolge, in una sola totalità di matrice hegeliano‑diltheyana, il soggetto storico‑sociale, o meglio, la soggettività sociale.

Cioè, in Mannheim la vita sociale si presenta già configurata storicamente in delle totalità di senso, nelle quali sono impegnati gli intellettuali liberi da ogni vincolo sociale‑strutturale. Queste totalità rinviano alle configurazioni sociali‑sociologiche (gruppi sociali, classi) attraverso la mediazione socio‑ideale, cioè attraverso gli intellettuali. Questo vuol dire che i soggetti empirici, sociali, si possono riconoscere come soggetti storici solo se si richiamano a quelle totalità, così come gli intellettuali si inverano socialmente solo se si assumono come agenti attivi di queste concezioni del mondo. Sono queste il vero medium tra soggetto e essere sociale. Così, il processo di conoscenza teoretica non può essere attuato fuori da questa sfera mediatrice etico‑culturale che rappresenta a tutti gli effetti l’essere storico‑sociale dotato di senso [l’essere in sé, puramente naturale o positivo, non esiste o non è conoscibile, a meno che non sia in rapporto con l’uomo, quindi già dotato di senso]. Da qui il condizionamento del pensiero secondo la collocazione sociologica ‑ ma rispetto ad uno stile di pensiero o Weltanschauung ‑ e, quindi, la storicizzazione della validità, cioè il collegamento necessario tra essere e significato o validità.

La prospettiva relazionale si traduce, quindi, nella scoperta di quanto di finalistico (e quindi etico‑assiologico) c’è nella conoscenza teorica storico‑sociale, in quanto il soggetto teoretico sussiste anteriormente come partecipe della vita sociale e, quindi, di una determinata concezione del mondo. La determinazione sociologica è, per così dire, sovrastrutturale perché il residuo finalistico irriducibile che si innesca in ogni conoscenza, la intentio animi, ha un carattere etico‑assiologico istituzionale, cioè impulsivo‑volitivo (per l’orientamento nel mondo), ma già configurato come totalità di senso, come sistema etico‑culturale di valori.

In questo senso la conoscenza dell’oggetto storico‑spirituale non si limita alla determinazione dei meri nessi formali, ma vuole la totale comprensione (Verstehen) dei nessi di senso in esso insiti. Si trata, quindi, di svelare la complessità significativa che avvolge ogni atto cognitivo, ogni cognizione storico‑sociale (si veda il caso della politica).

Conclusione

A questo punto, come abbiamo detto, si torna a Weber e a Rickert, cioè, grosso modo, alla Wertbeziehung. Solo che in Mannheim le totalità di senso condizionano sociologicamente la validità: con la relativizza­zione essa perde il suo valore assoluto in quanto si rivela funzionale a un determinato ordine socio‑intellettuale. Mentre per Weber il valore, selezionando gli oggetti storico‑sociali, non interferiva nella validi­tà delle imputazioni e, per Rickert, i valori ultimi (in una ontologia assiologica) presentavano l’eventualità di una fondazione ultima del­la validità, con Mannheim il relativismo diventa più forte.

Paradossalmente, possiamo trovare in questo Mannheim una coincidenza teorica molto significativa con il Mannheim di Die Strukturanalyse der Erkenntnistheorie: nonostante egli affermi il carattere attivo del soggetto storico‑sociale, in realtà questo viene costituito dall’attività mediatrice delle totalità di senso, giacché la sua cosiddetta collocazione sociologica é in realtà una collocazione etico‑culturale e assiologica, non avendo vera consistenza empirica. Proprio come quel soggetto che diventava, nella tesi di dottorato, complemento delle oggettivazioni scientifiche, qui diventa complemento delle totalità di senso.

Ma, stando così le cose, sotto l’apparente storicismo sociologico si nasconde un neokantismo tanto più inconfessato quanto Mannheim, da un lato, si rivendica suo critico e, dall’altro, si ispira ad una teoria che ne é direttamente opposta, cioè un marxismo che può, sì, essere superato dalla sociologia della conoscenza a patto di non ricadere nel kantismo aprioristico o in un ontologismo assiologico neokantiano. Inoltre, la sociologia della conoscenza conserva esplicitamente come sottofondo un concetto irrazionalistico e organicista della totalità vitale, non articolato, e che, perciò, non può vagliare delle differenziazioni teoriche funzionali. Insomma, questa totalità si presenta come un immenso campo indifferenziato (inconscio collettivo) che bisogna svelare progressivamente, cioè al quale bisogna rinviare ogni determinazione teorica, per così fondare la sua validità storicistica. Questa totalità vitale si configura soltanto in delle totalità di senso in con­correnza tra loro (e tra i loro agenti specifici, gli intellettuali), non differenziate secondo criteri teorici e soggette alla selezione natu­rale della sintesi storica che deriva dalla concorrenza. Se è vero che l’altra condizione strutturale della vita sociale, accanto alla concorrenza, è il fenomeno delle generazioni (1970: 509-565), allora questa totali­tà sociale, nelle sue manifestazioni socio‑spirituali, esprime un libe­rismo organicisticamente fondato, cioè le sintesi storiche provengono dalla libera lotta‑concorrenza tra stili di pensiero che si collegano sostanzialmente col fenomeno storico‑biologico delle generazioni. Così si potrebbe identificare, storico‑sociologicamente, il metodo della stessa sociologia della conoscenza con il primo liberismo economico.

Ma, a mio parere, la difficoltà fondamentale di Mannheim sta nel fatto di aver sublimato neokantianamente il contributo marxista e lo stesso concetto di collocazione sociologica, riconvertendolo in collocazione etico‑culturale e assiologica (impegno), cioè nel fatto di ridurre la dimensione naturalistica dell’elemento sociologico alla mera dimensione etico‑culturale, al doppio livello delle formazioni spirituali e degli intellettuali sociologicamente svincolati.

Siamo qui davanti ad un tipico procedimento riduttivo che procede con un concetto negativo di una empiria che bisogna sublimare convertendola eticamente, di un atto che diventa norma o dell’essere che diventa dover‑essere, tralasciando, quindi, l’autonomia e la positività dell’empiria e cioè compiendo, in questo caso, um ritorno alle posizioni pre‑weberiane. Un Weber a cui dobbiamo senz’altro l’attribuzione (non totale, vincolata al concetto, di matrice kantiana, ma anche hegeliana, dell’empiria come generalità indifferenziata) di dignità specifica al materiale empirico, separato metodologicamente, nel processo di imputazione, dai valori. E, così, Mannheim ha dovuto ridurre gli istituti storico‑sociali dotati di senso alle sole configurazioni etico‑culturali senza poter prendere in considerazione, proprio per questo pregiudizio, gli altri istituti storico‑sociali che, essendo dotati di senso, possono integrare positivamente quell’empiria, configurando istituzionalmente determinati elementi specificamente naturalistici. Cioè se gli impulsi‑volizioni si configurano come valori, anche la forza‑energia naturale si può configurare istituzionalmente e tecnicamente come apparato o strumento di esercizio sociale della violenza (naturale): le macchine, ma anche lo Stato (esercito‑polizia) e il diritto (tribunale‑prigione), in senso meramente strumentale.

Solo la considerazione di questi istituti ‑ ma anche di altri a carattere civile‑privato ‑ avrebbe potuto portare Mannheim ad una corretta determinazione non sublimata del carattere storico‑sociale del pensiero (in quanto questo costituisce, al pari dell’elemento naturale, un istituto storico‑sociale compiuto) che non eliminasse il contenuto socio­logico delle formazioni spirituali e che gli impedisse di concepire la determi­nazione sociale solo in termini allusivi e, perciò, come mero esempio o mero principio cognitivamente vuoto.

È proprio questa l’operazione che egli conduce rispetto al marxismo, il quale – nonostante determini la problematica della sociologia della conoscenza e costituisca il suo riferimento costante – viene, per così dire, indige­rito da questa disciplina per la presenza della tematica del senso, riduttrice abusiva di ogni materiale empirico a carattere naturalistico.

Mannheim dimentica, però, che non soltanto la dimensione volitiva della vita sociale si configura significativamente, o meglio, si configura istituzionalmente, ma che anche la natura si configura socialmente, organizzandosi e integrandosi negli istituti storico‑sociali. L’essere sociale è dotato di senso non solo in quanto si esprime come formazione spirituale, ma anche in quanto si esprime negli istituti storico‑materiali, accanto alla natura socialmente configurata.

Mannheim rifiuta il concetto di un mondo puramente naturale ‑ come rifiuta il concetto di formazione puramente ideale ‑, e in questo si avvicina a Gramsci, ma è condotto ad un radicalismo pressoché totale quando riduce e quasi annulla quel mondo naturale nella sfera etico‑volitiva assiologicamente configurata, non prendendo in considerazione il mondo più specificamente e ampiamente sociale – non solo psichico‑morale – della vita sociale‑collettiva e naturale, cioè la costituzione formale-materiale o materiale‑istituzionale dei valori stessi e delle forze naturali come forme o istituti formali materialmente configurati e, quindi, dotati di autonomia specificamente sociale rispetto sia al mondo ideale che al mondo naturale.

Solo attraverso questa mediazione storico‑istituzionale determinata e ambivalente sarebbe possibile funzionalizzare efficacemente il binomio pensiero‑essere, senza sussumere involontariamente a vicenda l’uno nell’altro operando acriticamente una tautologia.

Bibliografia

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MERTON, Robert King (1968). Social structure and social theory. New York: The Free Press.

PARSONS, Talcott (1979). Teoria sociologica e società moderna. Milano: Etas.

SANTOS, João de Almeida (1999). Os intelectuais e o poder. Lisboa: Fenda.

No Logo

João de Almeida Santos

I.

The Economist (8-14/09/01) dedicou a sua atenção ao livro de Naomi Klein «No Logo»* (Milão, Baldini&Castoldi, 2001), já considerado como a bíblia dos movimentos antiglobalização. Discordando radicalmente das teses da autora, concedeu-lhe, todavia, toda a capa, embora com um título nitidamente adverso: Pro Logo. O dossiê é claro na refutação da linha radical de esquerda da autora. Mas não creio que a argumentação expendida atinja o essencial do discurso de Klein. Os argumentos são, com efeito, de uma candura impressionante: «a verdade é que as pessoas gostam de marcas; elas não só simplificam as escolhas e garantem a qualidade, mas também acrescentam divertimento e interesse». Tal como «têm uma qualidade de culto que cria um sentimento de pertença». Ou, como diria Mr. Olins: «num mundo irreligioso, as marcas proporcionam-nos crenças». Ou, ainda, os consumidores são exigentes e soberanos e as marcas cada vez mais têm de corresponder às suas exigências. De resto, a evolução das marcas para uma efetiva intervenção social parece ser já um fato, segundo «The Economist». Mas, acrescenta, com evidente sabor crítico: «no futuro, a diferença consistirá em que serão os consumidores, e não os filantropistas, quem ditará a agenda social». Sentimento de pertença, crenças: o mundo das marcas como eficaz substitutivo das ideologias e das religiões. Tal parece ser a lógica da ideologia consumista: o clube cromaticamente correto da Benetton ou a mundividência mobilizadora da «empresa desportiva» Nike, que mantém permanentemente viva «a magia do esporte» (Klein, 2001: 44). Em particular, quando as marcas se lançam na busca incessante de «estilos de vida», de «intensidades afetivas» que aprofundem e «marquem» a relação com o consumidor, dando origem a afinidades coletivas mobilizadoras, envolventes, onde o sentimento de pertença é ativo e distintivo. É assim que a Polaroid surge não como máquina fotográfica, mas como «lubrificante social», que a IBM não vende computadores, mas fornece «soluções» para as empresas, que a Swatch não é simples marca de relógios, mas o «próprio conceito de tempo». Ou a «visão do mundo» que se transforma em «visão de marca». Ou seja, quando a nossa relação cognitivo-emocional com o mundo surge mediada irremediavelmente pela mundividência da marca: «Just do it», ou a força de decisão de quem usa sapatilhas Nike. Ou «a marca como experiência, como estilo de vida»: quando a simples «mercadoria» passa a sofisticado conceito. Ou quando as empresas se tornam autênticas promotoras de significado, ou de sentido (Klein, 2001: 40).

II.

A verdade é que o dossiê do «The Economist» não se confronta com o essencial do livro de Naomi Klein. É certo que o seu posicionamento está numa clara linha de radicalismo de esquerda e que a sua é uma crítica impiedosa do capitalismo que se exprime nas grandes multinacionais. E que, aparentemente, dá continuidade à velha linha crítica anti-imperialista própria do radicalismo de esquerda tradicional, daquele que se alimentava de ideologias de expressão marxista. Só que o faz justamente em moldes completamente novos. Pressupondo já uma clara distinção entre imperialismo e novo império pós-nacional. Ou seja: a poderosíssima rede de poderes fortes multinacionais que domina a cena mundial, para além dos próprios Estados nacionais, nos vários planos que vão desde a esfera produtiva até ao domínio do simbólico (v. Toni Negri, L’«Empire», stade suprême de l’impérialisme, in «Le Monde Diplomatique», Janeiro, 2001, pág. 3). Klein vai diretamente ao assunto, sem se deter em reflexões abstratas sobre os grandes princípios ou sobre as grandes fraturas que determinariam a evolução da história. Não parte, portanto, de uma ideologia sistematicamente organizada que determinaria previamente as opções de leitura do real, não se filiando explicitamente na mesma tradição que serviu de denominador político-ideal comum às ideologias radicais de esquerda, o marxismo. Verifica-se, todavia, na obra, uma influência explicitamente assumida, a da Internacional Situacionista, de Guy Debord, no caso da culture jamming, ou interferência cultural: os sabotadores (jammers) que, utilizando a técnica do desvio simbólico, invertem militantemente, para o ferir de morte, o sentido das fórmulas publicitárias das grandes marcas multinacionais. E que praticam um autêntico «Robin-Hoodismo semiótico» (Klein, 2001: 247-284). Klein analisa o modus operandi das grandes marcas multinacionais para daí retirar as suas conclusões e os ensinamentos sobre o melhor modo de as combater. Para ela, o poder político transnacional reside verdadeiramente nas multinacionais, pelo que é a elas que o combate se deve dirigir: «as empresas não se limitam a fornecer os produtos que nós pedimos, mas são também as mais potentes forças políticas do nosso tempo («em condições de fixar a ordem do dia da globalização»)»; «os dados hoje disponíveis falam claro: sociedades como a Shell e a Wall-Mart deliciam-se com lucros superiores ao produto interno bruto da maior parte dos países e na classificação dos 100 melhores sistemas econômicos do mundo há 49 nações e bem 51 empresas multinacionais» (Klein, 2001: 318).

III.

O discurso centra-se em três frentes fundamentais.
Em primeiro lugar
, no sistema produtivo que alimenta as multinacionais. Ela constata que estas exploram, em condições inacreditáveis, a mão-de-obra indefesa do terceiro mundo, recorrendo às tristemente famosas EPZ (Export Processing Zones), ou zonas livres de produção, situadas em países que aceitam criar autênticos enclaves produtivos libertos das normas mínimas que devem regular qualquer processo produtivo, verdadeiros paraísos fiscais, «territórios soberanos nos quais as mercadorias não se limitam a transitar, mas são efetivamente produzidas sem taxas de importação/exportação e, frequentemente, sem impostos sobre o rendimento ou sobre a propriedade» (Klein, 2001: 183), zonas onde impera uma autêntica ordem de tipo militar e onde os direitos sociais e políticos dos trabalhadores são coercitivamente impedidos.
Em segundo lugar, as multinacionais não só tendem a desativar todos os seus centros de produção nos países desenvolvidos, gerando desemprego, como também tendem cada vez mais a generalizar, nos seus próprios postos de venda, a precariedade laboral.
Em terceiro lugar, elas não só pretendem apropriar-se do poder político como também procuram fagocitar todo o espaço público para impor o mundo da marca como autêntico «way of life», saqueando culturalmente o próprio espaço mental (Klein, 2001: 319). Estes três aspectos resumem o essencial das dimensões que Klein põe em relevo nesta vasta obra, com enorme abundância de exemplificações e de análise empírica no terreno. O novo mundo é o mundo da marca, não o universo do produto. É o mundo do branding e não o universo da produção. Às marcas multinacionais deixou de interessar o processo produtivo, que alienam em subempreitadas por esse mundo fora. O que lhes interessa é a marca, o símbolo envolvente, o estilo de vida que promovem, a alusão a formas de autêntica experiência cultural. Gastam mais na publicidade do que no próprio processo produtivo. Processo que alienam, libertando-se de todas as obrigações sociais a ele inerentes. Elas tendem, por isso, a esquecer e a ocultar as condições em que decorre a produção para se empenharem no processo de promoção do universo simbólico que a marca representa. Enquanto a produção decorre no terceiro mundo, e nas condições de exploração que são conhecidas, a marca afirma-se no primeiro mundo com os lucros que também são conhecidos: «Não obstante todos os discursos retóricos sobre o Mundo-Globalizado-e-Unido, o planeta permanece sempre claramente dividido em produtores e consumidores e os enormes lucros obtidos pelas grandes empresas baseiam-se no pressuposto de que estas duas realidades contrapostas permanecem o mais possível separadas entre si»; «é como se a cadeia de produção global fosse baseada no pressuposto de que os trabalhadores do hemisfério Sul e os consumidores do hemisfério Norte nunca conseguissem encontrar um modo para comunicar entre eles» (Klein, 2001: 327-28). Naomi Klein percorre o vasto e complexo universo das marcas para lhes descobrir as grandes contradições, querendo, com isso, pôr a nu as próprias contradições da globalização econômica neoliberal e, por essa via, as contradições do capitalismo. A incursão no universo daquilo a que eu chamaria pós-publicidade das marcas tende a mostrar que vivemos cada vez mais num mundo simbolicamente colonizado por uma nova lógica mercantil, onde os próprios espaços de liberdade cultural que ainda restam começam também eles a ser sinalizados sub-repticiamente pela marcas. São os patrocínios. Ou mesmo mais do que os simples patrocínios: as marcas querem mais do que patrocinar a cultura. Elas querem ser a própria cultura. Lembro, a propósito, a mais recente publicidade da Benetton feita em co-produção com um organismo da própria ONU. Poder-se-ia falar de «co-branding» (Klein, 2001: 52). Os alvos de Klein são as grandes marcas multinacionais. Ela própria fez uma investigação exaustiva, deslocando-se designadamente a vários países do terceiro mundo onde estas têm os seus centros de produção. Coloca-se numa clara posição de contestação radical deste universo. E aprofunda a análise dos movimentos que têm vindo a dedicar-se à contestação das multinacionais, descrevendo as suas razões, as suas estratégias e as suas finalidades.Não se trata de uma obra de reflexão sobre as grandes causas morais ou sobre os grandes princípios. Eles estão lá, mas do que se trata é de entrar concretamente no assunto. O que faz de forma admirável. Como ela própria diz: «o ponto axial deste livro é uma simples tese: quanto mais pessoas tomarem conhecimento dos segredos da rede global das marcas e dos “logo“, tanto mais a sua indignação alimentará o grande movimento político que se está a formar, isto é, uma vasta onda de contestação que tomará como alvo precisamente as sociedades transnacionais, em particular as que têm marcas mais conhecidas» (Klein, 2001: 19). Não se trata de uma realidade insignificante. As pessoas que trabalham nas cerca de 1000 EPZ são 27 milhões, em todo o mundo e em cerca de setenta países. Indonésia, China, Sri Lanka, México, Filipinas, Nigéria, Coréia do Sul (conhecida nos anos oitenta como a «capital mundial dos tênis para ginástica»), Hong Kong, Guatemala, etc., etc., para outras tantas marcas multinacionais, Nike, Reebok, Burger King, Disney, Levi’s, Wall-Mart, Champion, General Motors, Shell, McDonald’s, Coca-Cola, Starbucks, Pepsi-Cola, Microsoft.

IV.

A questão é vasta. Como diz Ulrich Beck: «poder-se-ia dizer que aquilo que para o movimento dos trabalhadores do século XIX foi a questão de classe, no limiar do século XXI é, para as empresas que agem numa dimensão transnacional, a questão da globalização. Com a diferença essencial, todavia, de que o movimento dos trabalhadores agia como um contra-poder, enquanto as empresas globais até agora agem sem um contra-poder (transnacional)» (Ulrich Beck, Che cos’è la globalizzazione, Roma, Carocci, 1999: 13-14). E esta é, de fato, a diferença, já que a crise do Estado-Nação, ainda sem reais contrapartidas transnacionais, deixou estas empresas sem controle político e social visível, permitindo-lhes que se movam livremente no fluxo global, «fazendo o ninho» onde a meteorologia política e social se apresente mais favorável. Autênticas empresas-andorinha capazes de múltiplas migrações na geografia mundial do trabalho (Klein, 2001: 207). Se é verdade que é no seio das democracias nacionais que operam os mecanismos de controle e de regulação das instâncias de poder econômico, produzindo-se, assim, uma efetiva presença da legitimidade social no interior dos processos sociais, a globalização, superando os Estados nacionais, gera, por isso mesmo, um efetivo vazio de mecanismos de controle nesta escala, permitindo, por isso, que os processos transnacionais se expandam sem regras, sem regulação. O princípio exclusivo passa a ser, então, o do menor custo para um máximo de lucro. Aliás, a ausência de mecanismos democráticos de garantia e de controle constitui a base de partida comum para que as migrações das empresas se concretizem: procuram países não democráticos ou de democracia mitigada e, no interior destes, zonas onde os direitos e as obrigações sociais são ulteriormente reduzidos, as famosas EPZ. É certo que os movimentos antiglobalização contestam as políticas das grandes instituições internacionais, como a OMC, o Banco Mundial ou o FMI. Mas também é certo que se o livro de Klein ganhou o prestígio de bíblia destes movimentos foi porque encontrou uma frente bem concreta de luta e uma lógica bem precisa de combate que envolve a esfera da exploração no processo produtivo, mas também a esfera da opressão simbólica da pós-publicidade. Todo um programa que vai do produto ao símbolo.

V.

Em boa verdade, os movimentos antiglobalização nem se consideram como tal: «no-global é um “logo”, e nós somos no logo», diz Luca Casarini, porta-voz das «tute bianche» e dos Centros Sociais do Nordeste italiano; «somos “global”», acrescenta, mas «mas somos por uma globalização dos direitos, das solidariedades». Eles combatem a globalização neoliberal, mas também afirmam aqueles que são os valores clássicos do velho radicalismo de esquerda: a excelência da dimensão comunitária, o primado da experiência cultural contra a ditadura das fórmulas abstratas e opressivas, o triunfo dos direitos e das garantias, a força da solidariedade, o primado da autenticidade contra a cultura da hipocrisia, o domínio da ética. Mas o filósofo italiano Massimo Cacciari vê – e a meu ver bem – nestes movimentos uma lógica de afirmação oposta à dos movimentos «vanguardistas» tradicionais, que se punham o problema da hegemonia e da respectiva forma organizativa: então, no Maio de ’68, por exemplo, existia «um método dedutivo, com o qual se aplicava um esquema pré-determinado – em geral uma das variantes contempladas na tradição que vai das posições de Lênin àquelas, bem diferentes, de Rosa Luxemburgo». «Hoje, parece-me, aplica-se um critério indutivo e experimental na organização do movimento» (in «MicroMega», Roma, 4/2001: 25). Posta a crise das formas tradicionais de representação, um método deste tipo dá mais força democrática e maior expressividade aos próprios movimentos. Trata-se de redes, num duplo sentido: por um lado, exprimem diversas experiências e filões culturais que se condensam e articulam em ações estratégicas precisas e, por outro lado, comunicam em rede, também no seu sentido literal, o da Internet. Uma das críticas que é habitualmente feita a estes movimentos consiste em afirmar a sua contraditoriedade, já que sendo movimentos antiglobalização se servem de instrumentos que são produtos da própria globalização, desde o sistema dos media até à Internet.

VI.

A obra da Klein demonstra que a contradição é puramente retórica: os movimentos têmum alvo bem preciso, a globalização neoliberal, maximamente desregulada, as suas práticas e a sua mundividência. As suas práticas são contestadas pela verificação no terreno dos seus efeitos, pelo aumento exponencial da fratura entre os mais ricos e os mais pobres: nos últimos dez anos, a pobreza intensificou-se por todo o lado e, atualmente, os países mais pobres gastam mais para pagar a dívida aos países ricos do que para fornecer assistência sanitária e educação aos próprios cidadãos (Ulrich Beck, Manifesto cosmopolitico, Trieste, Asterios, 2000: 10). A sua mundividência é contestada pela incessante e progressiva colonização simbólica do mundo da vida, sob o registro da mercantilização dos espaços públicos físicos e mentais, suscitando, como reação, um desejo irreprimível de reconquista permanente de espaços livres da invasão publicitária e mercantil. Trata-se, entretanto, de uma geração que cresceu e se desenvolveu no interior da cultura da marca: que, portanto, a sente por dentro vivendo-a como opressão interior. É claro que não é possível reduzir estes movimentos à sua expressão mais violenta, como apressadamente alguém já fez. Do que se trata é de respostas à crise de representação que se verifica no novo universo político global, após a queda da utopia comunista e perante o domínio exclusivo da utopia consumista, daquela que tem por lema: «se não estás em toda a parte não estás em parte nenhuma». Os valores cosmopolitas que ficaram sem representação política foram assumidos por movimentos de diversa inspiração, mas que exprimem razões profundas e não anuláveis. A questão da legitimidade destes movimentos e do seu protesto não é, entretanto, redutível à simples expressão do voto. Estes movimentos exprimem transversalmente causas e, por isso, não é possível medi-los com o metro da simples legitimidade institucional. São movimentos que respiram com o pulsar das sociedades modernas. Que exprimem novas formas de procura do social e do político, incompreensíveis com as categorias da primeira modernidade, já que irrompem a partir de novas «contingências, complexidades e incertezas» (Beck, 2000: 5). E irrompem num tempo em que a política global apenas se sente como expectativa, mas quando ainda não encontrou efetiva consistência, aquela consistência que, por exemplo, se pode, hoje, encontrar nas organizações nacionais – sindicatos, por exemplo – que interagem fortemente com as respectivas instituições políticas. E isto porque a política global ainda vive no limbo do simulacro midiático. Texto publicado em www.rizoma.net (Intervenção: sem logo). * Publicado no Brasil como Sem Logo (2002, ed. Record).

Medios y poder

Jornadas «El futuro de la industria de comunicación». Junta de Galicia. Club Internacional de Prensa. Santiago de Compostela, Sede de la Fundación Caixa Galicia (23.10.2008).
Conferencia Inaugural por João de Almeida Santos.

«Medios y poder: cambios y perspectivas
en las relaciones entre política, medios y comunicación»

(La anemia democrática)

Si alguien me pidiera diagnosticar la principal enfermedad entre las que padece la democracia representativa, yo diría, sin dudarlo, que se trata de una anemia del poder político de origen electivo. Sí, lo diría, aunque estemos viviendo una grave crisis en el sistema financiero – importante pilar estructural de nuestros sistemas sociales – que muchos ya comparan a la crisis del ’29 y que es una clara demostración de la impotencia de los poderes electivos ante los círculos del poder financiero mundial. Y haría este diagnóstico sin referirme también a aquella causa que tantos analistas consideran una de las principales de esta anemia: la globalización de los procesos económico, financiero y decisional. Finalmente, lo diría sin referirme a la clásica teoría de la partitocracia que remetía la explicación para la confiscación del poder institucional por los directorios partidarios. No, no me referiré ni a crisis financieras ni a los problemas de la globalización ni a la partitocracia, porque es mi convicción profunda que los problemas más graves de nuestra democracia representativa son de orden institucional, interna, estructural y de larga duración y deben ser comprendidos con la contribución de la teoría de la comunicación. ¿Cuales son, entonces, esos problemas institucionales, estructurales, internos y de larga duración? Los identificaré en cinco puntos.

1º. El primero tiene que ver nada menos que con el corazón de la democracia: el principio electivo (sin elecciones no hay democracia) y la representatividad institucional de los políticos. El actual poder político es y se presenta como un poder anémico. Con anemia por desvitalización, por diluirse y hacerse líquido. Porque este poder está muy frágil, sin fuerza. Su fuerza, lo sabemos, provenía de la estabilidad, de la legitimidad de mandato y de la eficacia del mandato no imperativo. Esta estabilidad, lo sabemos también, resultaba del reconocimiento de que la «separación» entre representantes y representados, entre «sociedad política» y «sociedad civil», era la condición misma de la representación política. Y el mecanismo que traducía políticamente esta «separación» – que Hegel consideraba la fractura principal de la modernidad (Ritter, 1977: 43-46) – era el «mandato no imperativo», o sea, la transferencia, no revocable, de soberanía del ciudadano hacía su representante. El resultado era una representación legítima, estable y eficaz. Se obtenía así una legitimidad de mandato y un mandato de legislatura que permitían la adopción de medidas estratégicas de interés público sin necesidad de obtener permanentemente el consenso del público. El contrato social se mantenía intacto y la democracia funcionaba plenamente. Algunos autores, como, por ejemplo, Alain Minc, en «L’ivresse démocratique» (Minc, 1995), subrayan el papel de la vieja clase media y del Estado social en esta estabilidad. Lo que también es verdad. Pero el corazón del sistema representativo reside en el «mandato no imperativo» y en la «legitimidad de mandato». En nuestros días, esa «separación», como la conocíamos, ha sido superada por nuevos «vínculos inorgánicos», por nuevas relaciones de comunicación entre el poder y el público.

(Representación)

2º. La segunda causa consiste en una excesiva expansión de la representación y en su exclusiva conversión escénica. Ha sucedido que la vieja idea de la representación política, fundamental en la democracia representativa, ha conocido una tal expansión interna que terminó constituyéndose como espacio conceptual donde se ha verificado la mayor «confusión de géneros» en la historia del pensamiento político. La verdad es que en el universo de la representación política caben hoy, cada vez más: a) los tradicionales representantes políticos institucionales, pero también b) el «cuerpo orgánico» de la opinión pública: medios e «agentes orgánicos» del sistema mediático; c) los representantes de las clases, de los órdenes profesionales, de las asociaciones, etc.. Si el concepto de representación ya expresaba los sentidos jurídico, político, diplomático y escénico – algunos de los cuales se volverían orgánicamente funcionales a la representación política -, ahora, con la amplia expansión interna del concepto de representación política más allá de sus fronteras convencionales y su exclusiva conversión escénica, todos estos agentes sociales desempeñan su función de representación, sí, en el interior del sistema institucional, constitucionalmente y legalmente previsto, pero también en el espacio público de comunicación, interpelando directamente al público. Es cierto que en la dialéctica institucional estos representantes sociales o profesionales (sindicatos, confederaciones, órdenes profesionales, asociaciones) se expresan en su lenguaje corporativo, pero en el nuevo espacio público de comunicación ya se expresan como verdaderos agentes políticos ante un público universal. Es verdad. Todos los días asistimos, en los telediarios de las ocho, a las «performances» políticas de estos representantes, intentando influir y convencer directamente al público e, indirectamente, al poder político de sus razones y del interés público de sus reivindicaciones. El nuevo espacio público de comunicación es hoy una variable fundamental de todas las estrategias corporativas o políticas, sectoriales o universales que sean. Toda representación tiene hoy una dimensión escénica imprescindible, como ejercicio de poder. La representación o es escénica o no es verdadera representación. Es en este sentido que hablo de funcionalidad orgánica de la representación escénica respecto a la representación política. Como dice Manuel Castells, «el mensaje político, por lo tanto, es necesariamente un mensaje mediático» (Castells, 2007). Y es esta dimensión mediática y escénica que confiere universalidad a las prestaciones políticas de los representantes sociales o profesionales cualquiera que sea la representatividad que puedan exhibir. O sea, el espacio público de comunicación, especialmente la televisión (Santos, 2000), confiere universalidad a lo que es simplemente particular o individual ante la universalidad formal de las instituciones públicas. ¿Cómo? En dos tiempos: por un lado, en el acto mismo de hacer público lo que es privado y, por otro, haciéndolo público le confiere una difusión universal que no tenía. Universal sea porque gana una dimensión pública sea porque es universalmente difundido. Así, con esta evolución y expansión interna, hacía la universalización de las representaciones particulares, la representación política formal o institucional termina por perder su sentido originario.

(El ciudadano que se vuelve público consumidor)

3º. Una tercera causa de dicha anemia política tiene que ver con el concepto de ciudadano. El proceso a que nos referimos presupone una mutación profunda en la parte opuesta del sistema, o sea, en el concepto de ciudadano, el receptor de la comunicación política. Es una consecuencia lógica de la centralidad política del espacio público de comunicación que el ciudadano se vuelva público, espectador o consumidor de productos simbólicos, de bienes culturales, en el sentido que le dio Adorno en la «Dialéctica del Iluminismo». Una diferencia radical que cambia la relación política ciudadano-representante. Las categorías de público, espectador o consumidor son categorías menos determinadas, más vacías, más neutrales, transversales y pasivas que la categoría de ciudadano activo. Aquellas pueden ser destinatarias de los más variados productos en una relación de tipo vertical, de tipo sujeto-objeto, de tipo «one-to-many». El discurso orientado hacía el consumidor debe por eso obedecer a padrones muy diferentes de los que integran los discursos orientados hacía el ciudadano activo. Ciudadano que no es reducible a la dimensión pragmática e instrumental del consumidor o del público, porque es más complejo. Pero, la homologación de la política al discurso mediático y su adaptación a las exigencias operativas del nuevo espacio publico de comunicación, a sus códigos, a sus tiempos, a su velocidad, a su lógica han generado una equivalencia funcional entre los conceptos de público, espectador e consumidor y el concepto de ciudadano, permitiendo, con eso, una perfecta homologación del discurso político al lenguaje del marketing y de la publicidad (Castells, 2007). En el análisis del proceso de construcción de su «flash party», «Forza Italia», y de su campaña electoral de 1994, he podido verificar que Berlusconi ha desarrollado hacía un nivel muy radical esta operación de (1) reducción del ciudadano a espectador. Construyendo alianzas políticas (y territoriales) de tipo tradicional muy eficaces, él ha, después, (2) radicalizado el modelo de partido conocido como «catch all party», partido electoral-profesional, y ha (3) aplicado con eficacia dos modelos para la captación de electores: la «espiral del silencio», de Noelle-Neumann, sobretodo a través de la inflación de los resultados de sus sondeos a fin de influir sobre los indecisos (llegó a aumentar artificialmente estos resultados en 14 puntos); y el modelo «two step-flow of communication», de Katz y Lazarsfeld, sobretodo a través de la creación de los «Club Forza Italia» como segundo nivel de difusión interpersonal de los mensajes provenientes de sus centros de producción e de comunicación de mensajes políticos. Pero Berlusconi ha también desarrollado otra técnica muy funcional e orgánica al nuevo espacio público de comunicación: (4) la personalización integral de su mensaje político, construyendo en torno a si una «favola bella», una narración muy bonita en condiciones de seducir el espectador, el público, consiguiendo obtener su adhesión a su propuesta. Aquí podríamos también hablar de la «televisión para sordos», como Karl Rove (Jesús Timoteo, 2007). Estas operaciones fueran posibles porque el ciudadano ha cedido el paso al consumidor de productos propios del mercado de bienes inmateriales, a productos para un consumidor de tipo televisivo. Sus mensajes, inclusa su «discesa in campo», fueran construidos con las mismas categorías del discurso televisivo, orientados hacía sus respectivos «targets» y transmitidos in modo diferenciado por sus canales televisivos: Canale 5 para la clase media, Italia 1 para los jóvenes, Retequattro para las domésticas. La política ha sido integrada en el mercado de las «industrias culturales», en el sentido adorniano, y así es posible identificar, glosando a Karl von Clausewitz, la política berlusconiana como «continuación del audiovisual por otros medios». Así, emerge otra importante característica de la política berlusconiana: en ella (5) la demanda (las expectativas del público) precede la oferta (los candidatos, los programas, los valores, las ideas). En un proceso donde las técnicas de investigación de las expectativas del consumidor político (sondeos, encuestas y estudios de opinión) son fundamentales sea para formular los programas y los discursos y mensajes políticos sea para seleccionar los candidatos. Claro, las técnicas de marketing y los instrumentos para difundir el mensaje político son también decisivas. Estos modos de hacer los conocía y los tenía abundantemente Berlusconi en su Fininvest, en su Grupo. Y como dice Castells: «la política es, en primer lugar, una media politics» y los ciudadanos «consumidores en el mercado político». Es por eso que alguien ha hablado en lección schumpeteriana de Berlusconi (Ilvo Diamante, por ejemplo), sin duda pensando al libro Joseph Schumpeter «Capitalismo, socialismo y democracia», de 1942, y a las palabras que él pone en la boca de uno de los más experimentados políticos de siempre: «lo que los hombres de negocios no comprenden es que tal como ellos trabajan con el petróleo, yo trabajo con los votos» (Schumpeter, 1974: 388) Pero, esta identificación de la política con los medios y con los mercados tiene un problema, si es verdad lo que dice Castells: «la política de los medios tiene todas las características para despertar desconfianza en el proceso democrático» (Castells, 2007). ¿Desconfianza porqué? Porque es en los medios donde mejor y más intensamente sigue exprimiéndose la política del negativo, la política del escándalo, la política «tabloid», la política «basura» o la política «spin», donde estas son, hoy, las categorías dominantes. Así pues, la tercera causa de la anemia del actual poder político está en el ciudadano que se vuelve consumidor en un mercado de productos inmateriales.

(Gatekeeping versus network society)

4º. La cuarta causa de la debilidad del poder político tiene directamente que ver con la competencia que, en un mismo nivel, le hacen los medios: políticos y medios terminan compitiendo por el mismo mercado. Esto se ha verificado durante el proceso de emergencia de los medios como un sector con funciones tan importantes que han permitido al poder mediático competir con el poder político por el dominio en el juego de fuerzas de los sistemas sociales (Timoteo, 2007). De hecho, el sector de la información y comunicación (IC) – de la prensa al multimedia, a la Net – ha incorporado tan importantes funciones económicas (publicidad y marketing), culturales (industrias culturales), informativas y políticas – situándose, hoy, entre los diez más importantes sectores en los PIBs nacionales de las sociedades occidentales (Timoteo, 2005) – que terminaría por proyectar politicamente también a sus «agentes orgánicos» («periodistas», «editorialistas», columnistas, «directores», publicistas, «spin doctors», consejeros de imagen, etc., etc.) a un nivel mucho más elevado que lo simplemente profesional: lo de la afirmación social de su propio poder y de su protagonismo político. Algunos ejemplos: el periodista Walter Cronkite, «Mister Believer», fue, por su influencia, invitado como candidato a Vice-Presidente de los Estados Unidos; Karl Rove fue considerado, por su capacidad de juego con la opinión pública, como el hombre que ha inventado a George W. Bush; Ronald Reagan era un actor; lo mismo que Schwarzenegger, el gobernador de California, que pasó directamente de la pantalla al poder político real. El poder mediático, que en este sistema sigue ocupando el lugar principal, mientras se iba estructurando como prótesis pública de otros poderes, se afirmaba al mismo tiempo como protagonista político informal, disputando legitimidad y funciones al poder político formal de origen electivo. Como dice Castells: «según la tradicional teoría de la comunicación política, la influencia política ejercida a través de los medios es muy determinada por la interacción entre elites políticas (en su pluralidad) y periodistas. Los medios funcionan como gatekeepers de los flujos de información que plasman la opinión pública» (Castells, 2007). Y esta función de gatekeeping de los medios es, tal vez, su mayor fuente de poder, pues que son ellos que «bypasan» el flujo real y global de información. Es verdad. Lo que los vuelve determinantes para el proceso de construcción social de la realidad. Y esta es la situación actual. Pero, esta situación – y esta es una evolución que puede generar condiciones para el cambio radical de la actual situación -, está evolucionando a un ritmo muy rápido con la emergencia de la nueva network society y de un nuevo social software, los new media, la comunicación móvil y la Red. El monopolio de la representación social de la realidad por los medios convencionales está comenzando a ser amenazado. Las sociedades modernas disponen ya de un nuevo social software en condiciones de superar la exclusividad del modelo convencional de comunicación basado en la relación one-to-many, en el broadcasting, característico de los medios convencionales, y de crear un nuevo modelo fundado en la relación many-to-many, que es el modelo de la Red, poniendo fin a la exclusividad de «gatekeeping» de los medios y cambiando la estructura del espacio público de comunicación. Este nuevo modelo, que genera lo que Castells llama mass self-communication (comunicación individual de masas), crea un nuevo espacio de afirmación política de nuevos protagonistas diferentes de las tradicionales elites mediáticas, expandiendo el espacio público de intervención política y haciendo emerger con fuerza un «poder diluido» que había nacido con el espacio mediático de comunicación, pero que terminaría «confiscado» por las elites mediáticas. Hablo del «poder diluido» que da el título al excelente libro de Jesús Timoteo Álvarez, «Gestión del poder diluido. La construcción de la sociedad mediática – 1989-2004» (Madrid, Pearson, 2005) o del «micropoder» de que habla Javier Cremades en su libro «Micropoder. La fuerza del ciudadano en la era digital» (Madrid, Espasa, 2007). Al espacio público de comunicación pueden acceder, ahora, no solo las elites mediáticas, sino también todos los que se mueven en la red. Es decir, como cuarta causa de la debilidad del poder político, los medios convencionales y la Red emergen como directos protagonistas políticos, provocan el cambio de la naturaleza del poder representativo y contribuyen para su anemia.

5º. La quinta causa interna de la anemia está en cómo el cambio dentro del espacio público de información ha producido también cambios estructurales en la «sociedad civil», cambiando las relaciones de poder y haciendo emerger un nuevo tipo de poder, el poder diluido, que, en la primera fase, se alimenta de los medios tradicionales, pero que termina por ser confiscado por las elites mediáticas, y, en la segunda fase, se expresa, con más libertad, en la red, a través de los instrumentos digitales. La verdad es que los medios convencionales – como elementos centrales del «cuerpo orgánico» del espacio público de comunicación – siguen siendo, todavía, el espacio donde confluyen otros poderes en busca de consumidores y, además, de legitimación pública. Lo que, ayer, se obtenía exclusivamente en los pasillos del Palacio, hoy se obtiene haciendo presión pública sobre el poder político. Hoy los poderes de la «sociedad civil» buscan directamente junto del público, a través de los medios, pero ahora también a través de los new media, de la Red, el consenso y la fuerza que, después, exhiben ante el poder político para defensa de sus intereses. Como si la negociación política se desarrollara cada vez más según la capacidad que cada uno tiene de exhibir en el espacio público de comunicación su fuerza social, factor de condicionamiento de la deliberación y de la decisión públicas. Es verdad. El acceso al espacio público de comunicación sigue siendo controlado por los tradicionales «gatekeepers». Sus opciones editoriales son más el resultado de influencias cruzadas de las propias elites mediáticas entre ellas, del sistema propietario, de los poderes fuertes de la «sociedad civil», del sistema político y, the last but not the least, del mercado de las audiencias que de una plena asunción de los códigos éticos o de sus «esquemas normativos de referencia». O sea, son más el resultado de la síntesis entre un uso instrumental, idiosincrásico y comercial de su poder de agenda y de tematización que de una plena asunción de los grandes principios éticos de su propio código ético. Los medios siguen deteniendo una fuerte capacidad de control de tipo oligopólico sobre el mercado de la información (sobretodo las televisiones) y un fuerte poder simbólico en condiciones de determinar a largo plazo la opinión pública (efectos fuertes y prolongados), condicionando el proceso de construcción del consenso. Es lo que nos dicen las más importantes teorías de los efectos («agenda- setting», «espiral del silencio», «tematización», etc.). Esta situación conoce hoy, sin embargo, y como he dicho, una evolución tal que puede cambiar todo. Hablo, con Castells, del social software, o sea, de la Red, de la comunicación móvil, de los media digitales y de su capacidad de reducir el monopolio de la representación social de los medios y su exclusividad de «gatekeeping» y de hacer emerger un «poder diluido» (o un «micropoder») que pueda invertir la tendencia desde la perspectiva de un ciudadano activo en el espacio público de comunicación, pero no más reducido a una condición de espectador o de simple público. «Cualquiera intervención política en el espacio público», dice Castells, «exige la presencia en el espacio mediático. Y, pues que este último es ampliamente plasmado por grupos económicos e gobiernos que fijan los parámetros políticos a nivel de sistema político oficial, a pesar de su pluralidad, la emergencia de políticas insurreccionales no puede ser separada de la manifestación de un nuevo tipo de espacio mediático, que se basa en el proceso de mass self-communication». Y, citando Williams y Delli Carpini: pensamos que «la erosión del gatekeeping y la emergencia de una multiplicidad de ases de información ofrecen nuevas oportunidades a los ciudadanos que deseen desafiar el dominio de las elites sobre las cuestiones políticas» (Castells, 2007). Una vez más, se trata de superar la vieja lógica de la libertad de prensa, demasiado asociada a la idea protoliberal de «libertad negativa», por una nueva lógica y por el derecho del ciudadano a la información, de superar la lógica «spin», solo posible por la concentración en pocas manos de la capacidad de «bypasar» toda la información (gatekeeping), por una información sin guardianes con su monopolio de la representación social de la realidad. Lo que es cada vez más posible en la network society. Así está clara, en mi opinión, la quinta causa interna de la anemia: los cambios estructurales que la omnipresencia de los medios y de la televisión ha provocado en la «sociedad civil».

(El proceso deliberativo)

EN ESTE PROCESO QUE HEMOS ANALIZADO, ESTA EVOLUCIÓN INDUDABLE HACIA LA “NETWORK SOCIETY”, ¿CUÁL ES EL FUTURO DEL PODER POLÍTICO DE ORIGEN ELECTIVO, DE NUESTRAS DEMOCRACIAS? ¿QUÉ TIENE QUE HACER EL PODER POLÍTICO CON LOS MEDIOS? ¿TIENE QUE CONTROLARLOS, FINANCIÁNDOLOS, CAMBIARLOS, REGULARLOS…QUÉ HACER? Veamos en tres puntos.

(Mala mediación)

1. La verdad es que esta anemia no es el resultado de la manipulación de la comunicación por un «genio maligno», sino de un proceso objetivo. Como he dicho, ha sido la emergencia, en primer lugar, de los medios (de la prensa a la televisión) como nuevo espacio público (de comunicación), con las característica que hemos visto y que veremos, y, después, de la network society, con su nueva lógica relacional, que ha producido cambios tan relevantes en el espacio público que han provocado objetivamente una mutación genética en los centros vitales de la democracia representativa: la representación, el mandato y la legitimidad. Es esta la gran mutación que tenemos que comprender, porque ella explica la famosa crisis de la representación, la erosión de la democracia representativa, la anemia del poder electivo, más allá de la teoría política clásica, que miraba exclusivamente a la partitocracia como su causa. Es esta mutación que explica la anemia y el paso de la democracia representativa a la democracia post representativa. Lo que pasa es que estamos ante la emergencia del inmaterial como fuerza productiva decisiva, ante la globalización y la universalización de los procesos y de las relaciones económicas y financieras, la desterritorialización y la descomunitarización de la comunicación y la aceleración de los procesos y, en particular, del proceso y del poder mediáticos (Bauman, 2000; Beck, 2000; Virilio, 1994 e 1998; Gitlin, 2005). «No sense of place», es el título del importante libro de Joshua Meyrowitz sobre los medios electrónicos. Porque el contexto global de las relaciones ha cambiado profundamente y porque, en este cambio, el espacio público de comunicación se volvió decisivo, llave de la cohesión social (y de su contrario), no solo porque en él confluye todo el proceso deliberativo, sino también porque en él se expresan la economía (por ejemplo, la publicidad y el marketing) y la cultura (las industrias culturales). Además, la comunicación es universal, instantánea, vertical y horizontal, en red y siempre «on line». Cuando ya no es el ciudadano que busca la información, sino la información que busca el ciudadano. Cuando estamos viviendo una revolución post industrial en la comunicación, donde la comunicación vertical no tiene ya exclusividad porque hoy el social software comprende también la Red, la comunicación móvil y los medios digitales e interactivos, o sea, la comunicación se hace hoy también en una dimensión horizontal y con una lógica de tipo relacional. La lógica del sujeto convive hoy con una lógica de variables, una lógica relacional, verificándose, no una síntesis entre sustancia y función, como quería el Habermas de la famosa polémica sobre el positivismo (Habermas, 1969: 169), sino una dialéctica de complementariedad entre ellas. Todo esto proceso objetivo, que ha empezado con los medios convencionales, ha producido fuertes efectos sobre el proceso de deliberación democrática, porque, como dice Castells: los medios «se han vuelto el espacio social donde el poder es deliberado» (Castells, 2007; véase también Timoteo, 2005: 371-374). ¿Como? Veamos. Esta Deliberación desarróllase en dos fases: a) la primera fase, en orden lógico, es, naturalmente, la fase electoral, donde se da la decisión material, a través de la colocación del voto en la urna electoral. Este proceso tiene dos funciones: una, designativa y, la otra, de transferencia de soberanía. La primera sirve para designar los representantes; la segunda, para confiarles una legitimidad de mandato no revocable, excepto en los casos que la ley prevé; b) la segunda fase corresponde al proceso de construcción o de desconstrucción del consenso, en el sentido de adhesión voluntaria a una propuesta política. En estas fases el proceso de deliberación democrática se funda (debe fundarse) en una dialéctica argumentativa racional que busca resultados buenos para el interés general o público. A su vez, el proceso de construcción del consenso se desarrolla en dos momentos. El primero es temporalmente y materialmente intensivo (campañas electorales); el segundo es temporalmente extensivo (formación de la opinión pública). En la democracia representativa tradicional el momento determinante y casi exclusivo de todo el proceso era el momento intensivo y decisional (campaña + voto). En realidad, estábamos en un período de gran estabilidad ideológica y de gran estabilidad de la «clase media». En la democracia post representativa el momento determinante de todo el proceso es el momento extensivo, aunque parezca que no lo es, por la actual intensidad comunicacional de las campañas electorales. En las campañas se verifican solo pequeños ajustes que, sin embargo, pueden, en algunos casos, ser decisivos. La verdad es que en el proceso de formación de opinión pública, o mejor, en el proceso deliberativo, se han verificado mutaciones tan profundas que han terminado por cambiar la naturaleza misma del sistema representativo desde las siguientes perspectivas: a) la dialéctica constructiva – lo que Hegel llamaba «Aufhebung» – ha cedido el paso a una dialéctica negativa (o destructiva), consecuencia de la evolución «tabloid» del discurso político y mediático; este ambiente de cultura ha sido propicio a la emergencia de la política «spin»; b) el «interés público» ha cedido el paso al «interés del público», consecuencia de la identificación de la política como «continuación del audiovisual [sobretodo la televisión] por otros medios», de la reducción del ciudadano a público y del público a «audience», reduciendo la comunicación política a simples retórica instrumental para obtención de «influencia»; c) la fase «intensiva» se volvió residual respecto a la fase extensiva, con la emergencia de un nuevo tipo de legitimidad, la «legitimidad fluctuante» – que resulta de las fluctuaciones de la opinión pública -, subalternando también la vieja «legitimidad de mandato» y reduciendo el valor de uso del voto a su «función designativa». En realidad, la fase intensiva se volvió extensiva, como «campaña permanente» («permanent campaigning»). Es el caso de las elecciones americanas (incluyendo naturalmente las primarias) o como definido en la estrategia del primer New Labour (de John Smith, pero sobretodo de Tony Blair) (Calise, 2000: 43); d) la reducción tendencial del valor de uso del voto a su simple «función designativa» ha producido mutaciones muy importantes en el núcleo central de la democracia representativa: por un lado, disminuyendo el valor de la transferencia de soberanía del ciudadano hacía el representante y reduciendo la capacidad de control del poder por el ciudadano (esta función le ha sido «confiscada» por los medios); por otro, convirtiendo la vieja legitimidad de mandato en un nuevo tipo de legitimidad, la «legitimidad fluctuante»: lo que ha provocado casi la remoción del «mandato no imperativo», esencia de la democracia representativa. El resultado de este proceso fue la reducción tendencial del valor de uso del voto y de la legitimidad (de mandato), pues que aquello es reducido a simple operación técnica de designación de los representantes. e) Estas mutaciones producen un cambio muy importante: el poder de control sale del ciudadano y pasa a los medios. Este paso tiene, para el ciudadano, más problemas que beneficios, pues que pierde un poder sin ganar otro que lo compense. O sea, el ciudadano pierde la posibilidad de confiar una legitimidad de mandato estable al representante, perdiendo un poder sin ganar otro que lo sustituya con vantaje. f) Con este proceso los medios, que eran los mediadores, se vuelven parte, mientras representan el ciudadano en su función de control. O sea, acumulan todas las condiciones para hacer una mala mediación.

(Dialéctica negativa)


2. En segundo lugar y de cara al futuro, la centralidad política de los medios corresponde a la centralidad del nuevo espacio público de comunicación, a la emergencia del subsistema comunicacional como elemento central del sistema social y a la nueva configuración de la opinión pública. Estamos en una fase de transición de la democracia parlamentaria y de partidos hacía una democracia mediática, como dice Jesús Timoteo. Y en este sistema, por lo que he dicho, la retórica persuasiva instrumental para la conquista de «influencia» sobre el público ha sustituido la información y la dialéctica argumentativa para la construcción de redes de significado y la obtención de saber sobre el ejercicio del poder. Además, el lenguaje ha cambiado radicalmente, con (a) la imagen que sustituye el lenguaje analítico, propio de la «typographic mind», hacía aquella fórmula radical de Karl Rove de la «televisión para sordos» (Jesús Timoteo, 2007), (b) el «Homo videns» que sustituye el «Homo sapiens», (c) la emoción que sustituye la razón, siguiendo aquel modelo behaviourista de la «ley de la espoleta» (sexo, escándalos y sangre), y (d) la leadership totalmente personalizada que sustituye las ideologías, los partidos y los programas. A su vez, (e) el discurso negativo se está volviendo dominante o casi exclusivo, donde «el interés público» o el «interés general» cede el paso al «interés del público», más fácil, inmediato y eficaz en la captación de «audience». El discurso negativo es, por un lado, más apelativo que el discurso positivo y, por otro, más fácil, porque congenial al lenguaje televisivo. Este discurso se exprime políticamente como ejercicio permanente de desconstrucción del poder institucional, a nombre de la vieja y protoliberal «libertad negativa», como «perro de guardia» de la opinión pública. Es claro que la justificación para la crítica del poder es siempre el «interés público». Pero la identificación del ciudadano con el público tiene sus consecuencias, o sea, la conversión de «interés público» en «interés del público». Conversión, sin embargo, imposible porque estas son categorías muy distintas: la primera corresponde al «interés general», de todos (emisores, no emisores, receptores y no receptores); la segunda directamente tan solo a los espectadores (receptores) y, indirectamente, a los emisores (publicidad). La primera tiene una dimensión estratégica de futuro; la segunda una dimensión presente, inmediata. Se comprende: partidos y media buscan la conquista de «audience», de «cuotas de mercado» para sus productos. Sus exigencias son dominadas por el presente, pues miran a ganar concretas elecciones (partidos) o «audience» y publicidad que garantizen su supervivencia económica. Esta orientación pragmática hacía el «interés del público», asumida sea por los medios sea por los partidos, tiene sus consecuencias en el plano del discurso: el discurso negativo. Donde el negativo es la categoría más transversal a todos los discursos «tabloid» porque puede asumir una forma específica para cada género discursivo. Y es eso que explica la frecuencia de las «campañas negativas» en todos los tipos de elecciones. Por ejemplo, el discurso de la Señora Palin sobre Barack Obama. O, en las elecciones portuguesas de 2005, el discurso sobre José Sócrates.

(Un nuevo paradigma)

3. Un tercer ámbito de futuro y frontera está en el enfrentamiento directo entre políticos (sistema político) y medios (sistema mediático) por establecer no solo la agenda pública sino también las decisiones políticas. El discurso político converge con el discurso mediático y con las exigencias de captación de cuotas de mercado en el universo de la «audience», los «agentes orgánicos» de la política pierden autonomía, capacidad de creación autónoma de su propia «agenda» e capacidad de influencia sobre el sistema social en general, cediendo cada vez más el paso a las nuevas elites del poder mediático y comunicacional y a otros poderes con capacidad de penetración en el espacio público de comunicación. También aquí es comprensible que el tiempo de afirmación de estas elites no sea el tiempo de campaña, sino el tiempo real de la comunicación mediática. Que está «on line». Pero esta evolución, como hemos visto, ha ya producido una mutación radical en los paradigmas comunicativos: el paradigma de la prensa y de la «typographic mind» está evolucionando hacía un nuevo paradigma de la comunicación, que conserva e integra la comunicación vertical en un sistema que comprende también la comunicación horizontal, en red, móvil y de los medios digitales. Paradigma que rompe el monopolio de «gatekeeping» de las elites mediáticas. Y que, así, pone en crisis la política «spin». Se habló muchísimo de esto en las elecciones españolas de 2004, sobretodo de la fuerza de la comunicación móvil. Pero, hay que decirlo, el modelo dominante sigue siendo todavía, el viejo modelo mediático donde manda la televisión convencional. Todos sabemos que los medios convencionales están penetrando con mucha fuerza en la red, con sus formatos digitales, con su publicidad y que intentan controlar y absorber lo mejor que es producido en las plataformas de comunicación horizontal. Es verdad también que la política no ha hecho, todavía, su verdadera conversión a esta nueva realidad, prefiriendo mantenerse en las viejas plataformas comunicacionales. Y lo sabemos que cuando lo hará no podrá ella misma dejar de cambiar radicalmente sus métodos, su organización y su discurso. Pero, es verdad que esta nueva realidad nos está dando la posibilidad de introducir sangre nueva en el sistema, rejuveneciéndolo.

(Conclusión)

EN ESTA VISIÓN DEL FUTURO SOBRE LAS RELACIONES ENTRE POLÍTICOS Y MEDIOS, PODEMOS CONCLUIR LO SIGUIENTE:

1. El paso de la sociedad orgánica a la sociedad de la comunicación ha terminado por cambiar la naturaleza de la democracia representativa tradicional. Ahora bien, si estos cambios producidos han provocado, por todas las razones que hemos visto, su anemia, ahora, con la evolución de la sociedad hacía nuevas relaciones comunicacionales, donde, por un lado, los medios pierden su monopolio de la representación social de la realidad, su poder exclusivo de «gatekeeping», y los ciudadanos consiguen establecer nuevas relaciones cognitivas sea con el poder político sea con la realidad, SERÁ POSIBLE PROPONER UNA NUEVA POLÍTICA EN LINEA CON LAS NUEVAS RELACIONES COMUNICACIONALES.

2. En este cuadro el poder político ESTÁ OBLIGADO a cambiar sus relaciones con los medios y adoptar una nueva lógica en las relaciones con los ciudadanos, reponiendo la centralidad del concepto de «interés general» y destrozando las tendencias neocorporativas que se fueran superponiendo, a través de los medios, a la lógica democrática. El momento de la política «broadcasting» y sus derivados está terminando. Empieza un periodo donde la política se va a hacer relacional. Con ella, la democracia y el ciudadano pueden ganar un nuevo ánimo.

(Referencias bibliográficas)

BAUMAN, Zigmunt. (2000) Tutto depende dall’agorà, in «Reset», 60, Roma, Maggio-Giugno, pp. 59-60.

BECK, Ulrich. (2000) Libertà e democrazia in pericolo se vincono quelli “senza principi”, 60, Roma, Maggio-Giugno, pp. 54-58.

CALISE, Mauro. (2000) Il partito personale, Roma-Bari, Laterza.

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CREMADES, Javier. (2007) Micropoder. El poder del ciudadano en la era digital, Madrid, Espasa.

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RITTER, Joachim. (1977) Hegel e la rivoluzione francese, Napoli, Guida Editori.

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TIMOTEO, Jesús. 2005 Gestión del poder diluído. La construcción de la sociedad mediática (1989-2004), Madrid, Pearson.

TIMOTEO, Jesús. (2007) Postpolítica (paper), Faro, Univ. Algarve/Fisec.

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VIRILIO, Paul. (1994) Lo schermo e l’oblio, Milano, Anabasi.

VIRILIO, Paul. (1998) La bombe informatique, Paris, Galilée.

Berlusconi ou o «eterno retorno»

1. A Itália foi a votos em 2008 e trouxe de novo Berlusconi: «Unto del Signore», como ele, uma vez, disse de si próprio. Pela terceira vez (1994, 2001 e 2008). 1994 foi o início de um longo percurso de sucessos eleitorais. Em boa verdade, quase poderíamos dizer que, em catorze anos e cinco eleições legislativas, Silvio Berlusconi ganhou quatro, tendo perdido as de 1996 porque falhou a aliança com Umberto Bossi (que obteve 10,1% dos votos). Em 2006, ganhou-as em território nacional (mais 400.000 votos do que a esquerda), mas perdeu-as com os votos dos italianos residentes no estrangeiro (menos 425.000 votos do que a esquerda). O que se compreende, se considerarmos que o seu poder de fogo mediático não atinge tanto os italianos residentes no estrangeiro, mais influenciados por uma informação que lhe é genericamente desfavorável. Ou seja, as vitórias de Berlusconi parece terem-se tornado norma. Ou não fosse ele «Unto del Signore». Por isso, talvez 1994 não tenha sido, afinal, um «golpe de Estado mediático», como dizia Paul Virilio, no seu livro «L’art du moteur», no Posfácio à edição italiana («Lo schermo e l’oblio», Anabasi, Milano, 1994). Talvez tenha sido mais o início do processo de instalação de um sistema inovador na construção do consenso político. Sistema que, numa palavra, se pode definir pela prioridade da procura em relação à oferta, no mercado eleitoral. «Forza Italia» – e agora «Il Popolo della Libertà» (PdL) – rapidamente passou a ser o maior partido italiano.

2. No centro-esquerda, o «Partito Democratico», de Walter Veltroni, e hoje de Dario Franceschini, garantiu a segunda posição, com cerca de 4 pontos abaixo do «Popolo della Libertà»: em média (Câmara e Senado), 33,6% contra 37,4%. Parece, pois, ter-se iniciado o processo de bipolarização do sistema partidário italiano, acabando de vez com o minipartidarismo. A Câmara e o Senado passaram, a partir de então, a ter um reduzido número de formações políticas: PdL, PD, Liga, UDC, «Italia dei Valori». Estamos, portanto, perante uma racionalização do sistema, induzida pela bipolarização e complementada pelo «sbarramento» dos 4% (Camera dei Deputati) e dos 8% (Senato). E, todavia, as recentes eleições para o Parlamento Europeu vieram reforçar de forma consistente a «Italia dei Valori», de Antonio di Pietro, como segunda força política à esquerda.

3. Acontece, todavia, que se o PD estava formado em todas as suas estruturas e liderança, depois de um longo processo que terminou com as primárias para a eleição do líder, em que participaram mais de três milhões de cidadãos, o PdL acabou por se formar somente como partido eleitoral, não se tendo verificado, então, um efectivo processo de fusão interna e de eleição do respectivo líder. Nem vejo bem como seria isto possível, sendo um dos partidos – «Forza Italia» – um «partido pessoal», feito à medida do Berlusconi-empresário, com características muito diferentes dos partidos tradicionais e muito dependente das estruturas e das elites empresariais do grupo de Berlusconi. Não antevejo, por isso, facilidades na fusão de «Forza Italia» com «Alleanza Nazionale». Sobretudo, agora, que ganharam as eleições. Mas a verdade é que acabariam por se fundir organicamente. E, todavia, continuo a não ver facilidades neste processo, sobretudo depois dos recentes escândalos que abalaram Berlusconi e de um efectivo mal-estar no novo partido. Vamos ver o que acontecerá no futuro.

4. Posto isto, há que reflectir sobre a permanente dinâmica de vitória de Berlusconi. Tanto mais que ele deixou, após 5 anos de governo (2001-2006), um país com graves problemas económicos e de finanças públicas. Um só índice: segundo o «Institut for Management Development», de Genebra, neste período, o índice de competitividade de Itália caiu da 14.ª para a 53.ª posição. Por outro lado, Berlusconi legislou e agiu com muita intensidade em proveito próprio! Vejamos, com Alexander Stille («Citizen Berlusconi», Milano, Garzanti, 2006): com o «perdão fiscal» ele poupou cerca de 120 milhões de euros à sua Mediaset; fez sair a RAI da competição pelos direitos de transmissão dos desafios de futebol, deixando livre Mediaset; aprovou uma lei sobre o património cultural italiano de modo a permitir a construção na costa sarda, sendo ele um dos principais beneficiários; despenalizou o crime de «falso in bilancio», que tinha forte incidência nos processos legais que corriam contra ele e seus colaboradores; introduziu fortes restrições nas cartas rogatórias internacionais, ajudando, assim, os seus colaboradores nos processos judiciais; legislou de modo a resolver os problemas das suas televisões. E mais, muito mais. Por exemplo, o acordo leonino de Mediolanum com os correios italianos para a venda de produtos financeiros, a lei do «legittimo sospetto» ou a alteração da legislação napoleónica sobre a lei das sepulturas para que ele próprio e a sua família pudessem ser sepultados no mausoléu que mandou construir na sua Villa de Arcore (pp. 319-331). Autênticos «interessi privati in atti di ufficio», como se diz em Italia!

5. Ora, com um governo assim, como se explica a vitória de 2008? Claro, o governo de Prodi teve pouco tempo, tinha inúmeros problemas de gestão política interna e teve a gravíssima questão do lixo em Nápoles. Estava refém dos humores e dos dissabores pessoais de pequenos líderes, como Clemente Mastella. Que acabaram por fazê-lo cair. Mesmo assim, os grandes índices macroeconómicos de Prodi, em menos de dois anos de governo, são globalmente melhores do que os do quinquénio de Berlusconi: no desemprego (6,4% de Prodi contra 8,3% de Berlusconi), na dívida pública (104,5% contra 105,7%), no défice (3% contra 3,4%) e no crescimento do PIB (cerca de 1.4% contra 1%). Estes são valores que resultam da média dos valores conseguidos nos anos de governo de Berlusconi (2001-2006) e de Prodi (2006-2008). Mas a verdade é que a questão é mais profunda e tem já raízes históricas.

6. Na verdade, em 1994, Berlusconi conseguira, na sequência da desagregação integral do sistema de partidos italiano, e no fim de um processo que durou nove meses, ocupar estavelmente o terreno político deixado livre pela extinta DC, federando (territorialmente) a direita em torno do seu partido (Forza Italia) e da sua pessoa e garantindo a base política orgânica necessária para a construção de uma vitória eleitoral. Para isto, fundou um «partido de novo tipo», um autêntico «partido pessoal», meio electivo (no plano sub-regional) e meio profissional (no plano supra-regional), dotado de uma forte e estável liderança, carismática e omnipotente, de grandes recursos financeiros e técnico-profissionais (provenientes do seu grupo económico – Fininvest) e de poderosos meios de conquista do mercado eleitoral (sobretudo as suas televisões: Italia 1, Retequattro e Canale 5), concebendo a política como continuação do audiovisual por outros meios e o cidadão como simples público. E moldando, consequentemente, a política mais à lógica da procura do que à lógica da oferta (Amadori), inverteu, assim, aquela que era a lógica da política convencional, sobretudo a da esquerda. Ou seja, concebeu valores e programas políticos como projecção directa das expectativas do público, detectadas em estudos de opinião, inquéritos e sondagens, reduzindo o «interesse público» ao «interesse do público». Com isto, pôde construir um discurso adequado à «audiência» eleitoral, ganhando este mercado dos produtos políticos. Tratou-se de um processo muito complexo, mas igual ao processo de conquista do mercado das audiências televisivas.

Com este património político fez uma caminhada de sucesso que já dura há 15 anos.

7. Acresce que a esquerda, nestas eleições, acabava de sair de uma ruptura política abrupta, de um complexo processo de criação de um novo partido – o «Partito Democratico» – e de iniciar o processo de afirmação nacional do novo líder. O mesmo aconteceu, de resto, com a «Sinistra Arcobaleno», desta vez não coligada com a esquerda moderada e clamorosamente afastada do Parlamento.

8. Por outro lado, é bem provável que – vista a natureza do novo espaço público – o italiano médio acabe por se rever espontaneamente mais na imagem do «Sílvio nacional» – com todas as suas características construídas, encenadas, mas também reais – do que nos líderes da esquerda, sempre mais racionais, programáticos e ideológicos do que televisivos. Uma imagem, a de Berlusconi, que, de facto, não é só construída, mas também real. Nem de outro modo ele teria conseguido construir e defender um império económico colossal, sobre o qual também viria a criar um sistema de construção do consenso político inovador, na óptica de uma direita que se move na democracia com uma lógica exclusivamente instrumental.

(João de Almeida Santos, Lisboa, «Le Monde Diplomatique»/Institut Franco-Portugais, 17.04.2008)

(A conquista de Roma)

 

9. Depois das eleições legislativas foi a vez das autárquicas. Desta vez, o ocre de Roma tingiu-se de azul. O azul de «Il Popolo della Libertà», certamente, mas, aqui, um azul de tons mais carregados. Era a prenda que Berlusconi e Fini esperavam. A cereja em cima do bolo eleitoral das legislativas. Gianni Alemanno, de «Aliança Nacional», passou a ser o novo Presidente da Câmara de Roma. Derrotou Francesco Rutelli, do «Partido Democrático», que já o fora. A Capital embarcou, assim, na nova viagem nacional de Berlusconi. Falta agora saber se o virulento Bossi ainda vai continuar a usar o «slogan» «Roma ladrona, la Lega non perdona». Talvez não. Em primeiro lugar, porque ele próprio dirige o País a partir de uma cadeira ministerial, em Roma; em segundo lugar, porque a própria Capital está ser governada pelo partido a que está aliado; em terceiro lugar, porque o novo poder romano está a pôr em prática a política de intransigência migratória que a Liga há muito preconiza («rimandiamoli a casa»).

A conquista de Roma por «Il Popolo della Libertà» vem selar o processo de afirmação política da nova direita italiana, que parece finalmente ter conseguido um afinamento estratégico definitivo.

À esquerda, o «Partido Democrático» sofre uma derrota com um alto valor simbólico. O seu líder, Walter Veltroni, ocupara a cadeira romana durante sete anos. E o seu número dois, Francesco Rutelli, durante dois mandatos. O que não é pouco. De resto, são eles os rostos das duas grandes forças políticas que formaram o novo «Partido Democrático».

E a esquerda radical? São já muitos os analistas que lhe atribuem uma grande responsabilidade na derrota de Rutelli, incorformada que ficou com o seu afastamento parlamentar, por obra, dizem, de Veltroni e de Rutelli. A culpa do desastre da «Sinistra Arcobaleno» estaria, pois, na constituição do PD e na sua decisão de ir sozinho à competição eleitoral, havendo mesmo quem, erradamente, atribua a culpa das eleições legislativas antecipadas a Walter Veltroni. Como se a ruptura não tivesse sido provocada pelos problemas judiciais da família Mastella, do ex-ministro de Prodi! O que parece ser verdade é que esta esquerda militou pela derrota de Rutelli, num incompreensível ajuste de contas que acabaria por entregar Roma nas mãos da direita, rompendo uma longa tradição de governo de esquerda na Cidade Eterna.

De qualquer modo, o processo político italiano estava a exigir uma clarificação definitiva, tendo Veltroni feito a sua parte ao criar um grande partido reformista de centro-esquerda com vocação governativa. Agora, já não será ele a consolidá-lo: no plano organizativo, estabilizando um comando central capaz de determinar unidade na acção política quotidiana e estratégica e acabando com a fragmentação intrapartidária; no plano ideológico, definindo um espaço ético-político e cultural de afirmação do novo partido; no plano programático, definindo com rigor o sentido das políticas sectoriais; no plano nacional, definindo uma estratégia para o país, um modelo de desenvolvimento e uma estratégia de afirmação internacional. E não será ele porque foi substituído pelo moderado Franceschini, um líder que acabou de sofrer uma grave derrota nas europeias (cerca de menos 9 pontos do que o PdL), apesar dos gravíssimos problemas que afectam a liderança de Berlusconi.

Por outro lado, a direita parece ter consolidado a sua própria composição orgânica. Ezio Mauro identifica-a assim: «o Norte para a Liga, o Sul para Lombardo, Roma para “Aliança Nacional” e Itália para Berlusconi». Na sua simplicidade, esta fórmula colhe o sentido essencial da composição orgânica da direita italiana. Mas também é verdade que esta direita parece ter encontrado, com Berlusconi, uma fórmula política eficaz, sobretudo enquanto estiver apoiada em consistentes recursos técnicos, humanos e materiais: a política como a expressão mais simples da procura no mercado eleitoral. Se é verdade que na política tradicional a direita conservadora se alimentava dos valores da tradição e dos interesses instalados e consolidados, limitando-se a geri-los, agora ela adopta um discurso flexível e dinâmico adaptado às mutações que se vão produzindo nas sociedades, especialmente na faixa intermédia da nova «middle class», numa assunção plena do mercado eleitoral como espaço de procura de bens políticos intangíveis. A sua posição conservadora consiste em antepor a procura à oferta, adequando esta àquela. Usando a linguagem dos «media», diria que a direita, no plano eleitoral, antepõe o «interesse do público» ao «interesse público», sabendo, todavia, que, mercê dos recursos de que dispõe, pode moldar «o interesse do público» de acordo com a sua mundividência e com os seus próprios interesses.

Biobibliografia

JOÃO DE ALMEIDA SANTOS


(Última actualização: 03.04.2016)

 

A SHORT BIOGRAPHY 

 João de Almeida Santos (1949) is «European Doctor» by «Universidad Complutense de Madrid». Director of the Faculty of Social Sciences, Education and Administration and of the Department of Political Science, Security and International Relations of Lusofona University of Humanities and Technologies, Lisbon. He was Chief of the Office of several Ministers of the Portuguese Government, from 1995 to 2002 and Political Adviser of the Portuguese Prime Minister from 2005 to 2011. He is also Visiting Professor in the University Complutense of Madrid. In his academic career he has been Professor and Researcher in Coimbra University and in Rome University «La Sapienza», between 1974 and 1988.  Among other books he published «The Principle of Hegemony in Gramsci» (Lisbon, 1986), «Paradoxes of Democracy» (Lisbon, 1998), «The Intellectuals and the Power » (Lisbon, 1999),  «Homo Zappiens» (Lisbon, 2000), «Media and Power» (Lisbon, 2012) and «To the left of the crisis» (Org.) (Lisbon, 2013). He collaborates in many portuguese, spanish and italian political, cultural and communication Reviews and Books. He was President of the Municipal Assembly of Guarda, 2005-2013, and of the COMURBEIRAS-Intermunicipal Community Assembly, 2006-2013.

(I).

João de Almeida Santos é «Doctor Europeo» (com a classificação máxima de «sobresaliente cum laude») pela Faculdade de Ciências da Informação da Universidade Complutense de Madrid. Nasceu em Famalicão da Serra (Guarda). Licenciou-se em Filosofia na Universidade de Coimbra, em 1974, com 17 valores e distinção. Em 1987, obteve a«Laurea di Dottore in Filosofia» na Faculdade de Letras e Filosofia da Universidade de Roma «La Sapienza», com a classificação máxima e louvor (110/110 e lode). Foi Professor nas Faculdades de Letras dasUniversidades de Coimbra, onde teve a regência da cadeira de Filosofia Política, e «La Sapienza», de Roma, respectivamente, entre 1974 e 1980 e 1984 e 1988. Foi membro do Conselho Directivo da Faculdade de Letras da Universidade de Coimbra, em 1974 e 1975. Foi Investigador junto da Cátedra de Ciência Política do Instituto de Sociologia da Universidade de Roma, «La Sapienza», dirigida pelo Professor Umberto Cerroni, entre 1978 e 1984 (mantendo-se como assistente da Faculdade de Letras da Univ. de Coimbra entre 1978 e 1980). Em 1981, obteve diploma de língua alemã pelo Goethe Institut de Roma. Foi bolseiro, em Roma, da Fundação Calouste Gulbenkian (entre 1978 e 1981), do Instituto de Língua e Cultura Portuguesa (entre 1983 e 1984) e do Governo italiano.

(II).

Foi Chefe de Gabinete de:

  1. Secretário de Estado da Administração Interna, entre 1995 e 1997;
  2. Secretário de Estado Adjunto do Ministro da Administração Interna, entre 1997 e 1999;
  3. Ministro Adjunto do Primeiro-Ministro,entre 1999 e 2000;
  4. Ministro da Juventude e do Desporto, em 2000;
  5. Ministro da Presidência, em 2002 (Foi Adjunto do Ministro da Presidência, entre 2000 e 2001).

Foi Assessor Político do Primeiro-Ministro (entre Abril de 2005 e Junho de 2011).

Foi Presidente da Assembleia Municipal da Guarda (de Novembro de 2005 até 19.10.2013).

Foi Presidente da Assembleia da COMURBEIRAS-CIM, Comunidade Intermunicipal, composta por doze Municípios, correspondentes às NUTS Cova da Beira + Beira Interior Norte, entre 2006 e 2013, tendo sido Presidente da Assembleia da Comunidade Urbana das Beiras/Comurbeiras, entre 06.07.2006 e 05.06.2009 e Presidente da Assembleia da Comurbeiras-CIM, entre 05.06.2009 e 26.03.2010.

(III).

Foi Membro da Comissão Nacional do Partido Socialista, entre 2004 e 2011.

(IV).

Foi Presidente da Assembleia-Geral do CECL, «Centro de Estudos de Comunicação e Linguagens» da Universidade Nova de Lisboa (2010-2013), e membro do ICML, «Instituto de Comunicação e Media de Lisboa», até setembro de 2013.

(V).

Professor Catedrático, é Director da Faculdade de Ciências Sociais, Educação e Administração Director do Departamento de Ciência Política, Lusofonia e Relações Internacionais da ULHT (Lisboa). É Director da Revista «ResPublica», órgão do «Centro de Investigação em Ciência Política, Relações Internacionais e Segurança (CICPRIS), de que também é Director.

Foi Director da Faculdade de Ciência Política, Lusofonia e Relações Internacionais, da ULHT, entre 2012 e 2013, e da Faculdade de Ciência Política e Relações Internacionais, da ULP, entre 2012 e 2014.

(VI).

É Professor Convidado no Doutoramento em «Comunicação Social» da Faculdade de Ciências da Informação da Universidade Complutense de Madrid.

(VII).

É Membro fundador do FISEC (El Foro Iberoamericano sobre Estrategias de Comunicación).

(VIII).

É membro do ThinkCom.org./Instituto de Pensamiento Estratégico da Universidade Complutense de Madrid.

(IX).

É colaborador do Blog espanhol «Comunicacion/es», integrado no «Site»http://www.tendencias21.net/

(X).

É Presidente da Comissão «Partes Interessadas» da Comissão Vitivinícola Regional da Beira Interior.

(XI).

Foi membro do Conselho de Opinião da RDP (2001-2002).

Foi colunista permanente do «Diário de Notícias» (Opinião, Cultura e Política Nacional) entre 1985 e 2001 e do «Diário Económico», entre Julho de 2004 e Julho de 2009.

Foi colunista do Semanário regional «O Interior» (Guarda-Covilhã) [desde a sua fundação, em 2000, até 2013].

Foi Coordenador e Administrador da Revista de Reflexão e Crítica, dirigida por Eduardo Lourenço, «Finisterra», entre 1994 e 1996, mantendo-se como membro do seu Conselho Editorial.

Foi Director Executivo do órgão oficial do Partido Socialista «Acção Socialista», entre 1993 e 1996.

Entre 1991 e 1994 foi Redactor da revista italiana «Euros» (Roma). Fundador da Revista de Arte e Cultura «Adágio», foi seu Director entre 1990 e 1992. Foi Colaborador do semanário italiano «Rinascita». Colaborou na Revista dos Federalistas Europeus «L’Europa dei Cittadini». Foi Redactor da Revista «Seara Nova», entre 1974 e 1978.

(XII).

É autor da tese (discutida na Faculdade de Letras e Filosofia da Universidade de Roma «La Sapienza»): «Problemi di metodo nelle scienze storico-sociali: da Kant ad Habermas» (1987). Dactilografada (228 pág.s).[Em vias de publicação – v. E)1].

(XIII).

É autor dos seguintes livros (8):

  1. À Esquerda da Crise(Org.) (Lisboa, Vega, 2013, 142 pág.s).Organização, Introdução e Cap.II. Com Luís Amado, José Conde Rodrigues, João Cardoso Rosas, Rui Pereira, Guilherme d’Oliveira Martins e Carlos Zorrinho.
  2. Media e Poder. O poder mediático e a erosão da democracia representativa(Lisboa, Vega, 2012, 372 pág.s).
  3. Homo Zappiens. O feitiço da televisão(Lisboa, Editorial Notícias, 2000, 130 pág.s).
  4. Os intelectuais e o poder(Lisboa, Fenda, 1999, 222 pág.s).
  5. Breviário político-filosófico(Lisboa, Fenda, 1999, 105 pág.s).
  6. Paradoxos da democracia(Lisboa, Fenda, 1998, 237 pág.s).
  7. Problemi di metodo nelle scienze storico-sociali: da Kant ad Habermas(Roma, Facoltà di Lettere e Filosofia, 1987; de próxima publicação em português).
  8. O princípio da hegemonia em Gramsci(Lisboa, Vega, 1986, 174 pág.s).

 

(XIV).

É co-autor dos seguintes livros (13):

  1. (2015). 20 Anos de Jornalismo Contra a Indiferença. Coimbra: Imprendsa da Universidade de Coimbra.

(“Media, Rede e Poder: Comunicação e Democracia”, pp. 233-243).

  1. (2012). Maquiavel e o Maquiavelismo. Coimbra, Almedina.

[«Viagem pelas releituras de Maquiavel», pp. 137-157]

  1. (2010) Telejornais no início do Século XXI. Lisboa: CIMDE/Colibri.

[«A informação televisiva na RTP2: o Jornal 2», pp. 133-170, com António Belo].

  1. (2010).«Muchas voces. Un mercado:La industria de la comunicación en Iberoamérica. Perspectivas (Madrid, Editorial Universitas.

[«Medios y poder: cambios y perspectivas en las relaciones entre política, medios y comunicación», pp. 257-274].

  1. (2008). Comunicación y desarrollo cultural en la Península Ibérica. Retos de la sociedad de la información. Actas del III Congreso Ibérico de Comunicación, Sevilla. Sevilla: Universidad de Sevilla.

[«O poder dos media no espaço europeu de comunicação», pp. 83-89]

  1. (2006). Da gaveta para fora. Ensaios sobre marxistas. Porto: Afrontamento.

[«Hegemonia: o primado do consenso na teoria política de Gramsci», pp. 83-112;

«O teatro de Luigi Pirandello segundo Gramsci», pp. 113-121].

  1. (2004). La scienza è una curiosità. Scritti in onore di Umberto Cerroni. Lecce: Manni Editore.

[«Il potere mediatico e la crisi della democrazia», pp. 55-69].

  1. (2003). As grandes correntes políticas e culturais do século XX. Lisboa: Colibri/IHC-UNL.

[«Novas formas de comunismo e radicalismo de esquerda», pp. 155-181].

  1. (2002). 10 milhões de razões. Lisboa: Editorial Notícias.

[«O espectáculo da democracia. Para uma crítica da razão mediática», pp. 41-71].

  1. (2001). Novo ciclo, a política do future. Lisboa: Editorial Notícias.

[«Cosmopolis. Categorias para uma nova política», pp. 61-89].

  1. (1999). Terceira Via. Lisboa: Fenda.

[«A democracia do holofote», pp. 65-82].

  1. (1998). Villes e sécurité [Mesa Redonda Internacional, com Pierre Mauroy, Jean-Pierre Chevènement, entre outros]. Paris: Fondation Jean Jaurès.

[Intervenção em pág.s 166-169].

  1. Prefácio a Silva, R., e Dias, A. L. (2015). Segurança Privada em Portugal. Lisboa: bnomics.

 

(XVI).

Traduziu para português

  1. a) Resweber,Jean-Paul, La pensée de Martin Heidegger [Toulouse, Privat, 1971] (Coimbra, Almedina, 1979);
  2. b) Mancini, Paolo e Mazzoni, Marco, I telegiornali in Italia, in Joel Frederico da Silveira e Pamela Shoemaker, Telejornais em exame, Lisboa, Colibri/IPL, 2010, pp. 271-292.

 

(XVII).

Algumas comunicações (27):

  1. “As Religiões e a Liberdade: desafios numa época de extremos” – Debate na Mesquita Central de Lisboa. Clube de Filosofia Al-Mu’tamid, por ocasião do World Interfaith Harmony Week. Fevereiro, 2016.
  2. “O Estado Social”. Debate na Mesquita Central de Lisboa. Clube de Filosofia Al-Mu’tamid. Novembro de 2014.
  3. A Rede e o Poder” – Congresso Internacional sobre “Netactivismo”. Porto, Universidade Lusófona do Porto. Novembro, 2015.
  4. Seminário «Investigar e editar comunicação social», na Faculdade de Ciências Humanas da Universidade Católica Portuguesa-Lisboa, 30.10.2012: «Media e Poder. O poder mediático e a erosão da democracia representativa», por ocasião da publicação da obra com o mesmo nome (Lisboa, Vega, 2012).
  5. Participação, como Relator único, em três Seminários, de Mestrado e Doutoramento em Comunicação,  sobre«Comunicación, Red y Poder» na «Facultad de Ciencias de la Información» da Universidad Complutense de Madrid, nos anos de 2013 (Março – 10 horas), 2012 (Abril – 10 horas) e 2010 (Maio – 10 horas).
  1. Lição inaugural do ano lectivo de 2011-2012 do Departamento de «Filosofia, comunicação e informação» da Faculdade de Letras da Universidade de Coimbra: «Media, Rede e Poder: comunicação e democracia» (07.10.2011).
  2. Comunicação sobre «Política e comunicação no Portugal de hoje»,no «II Seminario ibérico de investigación en comunicación» (Tema: «Poder político e comunicación»), Universidade de Vigo, Castelo de Soutomaior, Pontevedra (21.12.2010).
  3. Conferência inaugural das Jornadas «El futuro de la industria de comunicación» no «Club Internacional de Prensa» (Junta da Galiza) sobre: «Medios y poder: cambios y perspectivas en las relaciones entre medios, comunicación y poder», 23 de Outubro de 2008, Santiago de Compostela.
  1. Intervenção no debate «O regresso de Berlusconi», com Goffredo Adinolfi (ISCTE), Miguel Portas (Eurodeputado/BE) e João de Almeida Santos, «Le Monde Diplomatique»/Institut Franco-Portugais (Lisboa, IFP, 17.04.2008): «Berlusconi ou o “eterno retorno”».
  2. Comunicação sobre «Estrategias de comunicación política: nuevos modelos», FISEC/Universidade do Algarve, «Navegando hacia el futuro. Las coordenadas de la nueva teoria estratégica», Faro, 12-14 de Setembro de 2007.
  3. Conferência sobre «Actualidade de Maquiavel. Viagem pelas releituras de Maquiavel». Faculdade de Artes e Letras da UBI, Instituto de Filosofia Prática, Covilhã, 25.05.2007.
  4. Comunicação sobre «O poder dos media no espaço europeu de comunicação», no painel «Cultura Ibérica y espacio europeo de la comunicación». III Congreso Ibérico de Comunicación», Universidad de Sevilla. Sevilla 14.11.2006.
  5. Comunicação sobre «O poder dos media». «Jornadas de Comunicação e Política», Departamento de Artes e Filosofia. Universidade da Beira Interior (UBI), Covilhã, 13.10.2006.
  6. Conferência sobre «O poder mediático e a democracia representativa», Instituto Politécnico da Guarda, Escola Superior de Educação, 18.05.2006.
  7. Conferência sobre «Media e Poder», Instituto Politécnico da Guarda (ESEG), 09.06.2004.
  8. Comentário a 2 comunicações de Manuel Maria Carrilho e de Antonio Tabucchi sobre «Os media, a cultura e a democracia», 5.04.2004, Lisboa, Fundação Mário Soares.
  9. Comunicação sobre «Diversidade cultural e democracia», 1-2 de Junho de 2002, Sintra, Hotel Tivoli, Encontros Internacionais da SEDES.
  10. Conferência sobre «António Gramsci e a tradição marxista», 9 de Maio de 2002, AE do ISCTE, Lisboa.
  11. Conferênciasobre «Novas formas de comunismo e radicalismo de esquerda», Janeiro de 2002. Instituto de História Contemporânea da FCSH da Universidade Nova de Lisboa: XI Curso do IHC – «As Grandes Correntes Políticas e Culturais do Século XX».
  12. Comunicaçãosobre «O poder mediático e a erosão da democracia representativa», Maio de 2001, Málaga (Esp.). Intervenção no I Congresso Ibérico de Comunicação – Faculdade de Ciências da Comunicação da Universidade de Málaga e SOPCOM (Associação Portuguesa de Ciências da Comunicação).
  13. Conferência sobre «Ciberdemocracia ou gaiola electrónica?», Maio de 2000. Intervenção no Seminário sobre E-politics, CCB-Lisboa, Escola Superior de Comunicação Empresarial.
  14. Comunicação sobre «Una politica europea per la migrazione». Roma, Camera dei Deputati/Sala del Cenacolo. Novembro de 1998. Intervenção no Seminário sobre «Europa e Migrazione», promovido pelo Partido Socialista Europeu.
  15. Intervenção sobre «Villes et Sécurité» (Table Ronde Internationale, avec Pierre Mauroy, Jean-Pierre Chevèment, parmi d’autres), Paris, Avril 1998. IS/Fondation J.Jaurès/Institut de Hautes Études de Securité Interieur/Fondation F. Ebert.
  16. Conferência sobre «Cidadania para uma democracia europeia», Faro, 1996, Universidade do Algarve. Conferência sobre a União Europeia.
  17. Entrevista de Luís Miguel Viana sobre «Os media e o poder», in «Pública» («Público»), n.º 417, de 23.05.2004, pág.s 7-10.
  18. Entrevista de Tiago Fernandes sobre «O “controlo remoto” do poder», in «Visão», 17.09.2009, pág.s 58-59.
  19. Entrevista de Fernando Sobral sobre «À Esquerda da Crise» (Lisboa, Vega, 2013), «Jornal de Negócios», 20.09.2013.

 

(XVIII).

Alguns Ensaios (41):

  1. “Un Nuevo Paradigma para el Socialismo”. In www.tendencias21.net.
  2. “Da Carl Schmitt à Nicollò Machiavelli: la Politica o il Pessimismo Antropologico”. In ResPublica, 13, 2013 (2015), pp. 43-61.
  3. Introdução ao Catálogo da Mostra “Objectos Vagos”, de Maria Oliveira, de 2014, no Palácio Nacional de Mafra.
  4. Introduçãoao Catálogo Maria Oliveira, «Chama-me de preposição», Cascais, Centro Cultural de Cascais, 2013. Exposição de esculturas em bronze e de três maquetas.
  5. “A política e a rede: os casos Italiano e Chinês”, in cicpris.ulusofona.pt
  6. Os media, a rede e o poder. Inhttp://www.tendencias21.net/
  7. Cosmopolis. Inhttp://www.tendencias21.net/
  8. «Democracia Pos-Electoral: una Paradoja!», in  http://www.tendencias21.net/(Blog: «comunicacion/es»).
  9. «Política y Comunicación en el Portugal de Hoy», in http://www.tendencias21.net/(Blog: «comunicacion/es»).
  10. «Spinning», in «Newsletter Comunica», http://www.escs.ipl.pt (Fev.2011)
  11. A Rede e a Democracia: uma simetria perfeita?,in joaodealmeidasantos.blogspot.com; in http://www.tendencias21.net/(Blog: «comunicacion/es»).
  12. A esquerda e a natureza humana, in joaodealmeidasantos.blogspot.com; in http://www.tendencias21.net/(Blog: «comunicacion/es»).
  13. O Espaço Intermédio, in joaodealmeidasantos.blogspot.com;inhttp://www43-61.tendencias21.net/ (Blog: «comunicacion/es»).
  14. 14.A rede, o poder e o contrapoder, in joaodealmeidasantos.blogspot.com; in http://www.tendencias21.net/ (Blog:«comunicacion/es»).
  1. Política 2.0, inblogspot.com; inhttp://www.tendencias21.net/(Blog: comunicacion/es).
  2. Os mediae a «política do negativo», injoaodealmeidasantos.blogspot.com.
  3. Reflexões sobre a crise, injoaodealmeidasantos.blogspot.com.
  4. Actualidade de Maquiavel. Viagem pelas releituras de Maquiavel,in joaodealmeidasantos.blogspot.com.
  5. Berlusconi ou o «eterno retorno», injoaodealmeidasantos.blogspot.com.
  6. “Berlusconi o el nuevo príncipe pos-moderno”, in «Telos. Cuadernos de comunicación, tecnología y sociedad», Madrid, n.º 62, 2005, págs. 97-102; in joaodealmeidasantos.blogspot.com.
  1. “No Logo”, in http://www.rizoma.net/ (Intervenção) (Reflexões em torno da obra de Naomi Klein: No Logo); in ResPublica, 11, 2011 (2013), 41-50; e joaodealmeidasantos.blogspot.com
  2. “Diversidade cultural e democracia”, in ResPublica, 10, 2010 (2013), 97-107; e joaodealmeidasantos.blogspot.com.
  3. “Saggio su Mannheim e la sociologia della conoscenza”, in «Revista Jurídica», n. 25, Lisboa, 2001, pp. 473-493; injoaodealmeidasantos.blogspot.com.
  4. Cidadania para uma democracia europeia, in «Finisterra», n.º 20, Lisboa, 1996, pp. 25-45.
  5. Ligações perigosas, in «Acção Socialista», n.º 852, Lisboa, 1995, pp. 6-7.
  6. A revolução no sistema político italiano e a esquerda, in «Finisterra», n.º 15, Lisboa, 1994, pp. 5-69.
  7. Portogallo al bivio, in «Euros», n.º 5/6, Roma, 1993, pp. 39-41.
  8. A esquerda, o passado e o futuro I e II, in «Acção Socialista», n.º 767 (pp. 6-7) e n.º 768 (pp. 6-7), Lisboa, 1993.
  9. Nota sobre o Partido Socialista Europeu, in «Finisterra», n.º 12, Lisboa, 1993, pp. 168-171.
  10. Reflexões sobre a revolução europeia, in «Acção Socialista», n.º 750, Lisboa, 1993 (pp. 6-7).
  11. Memorial para uma democracia europeia, in «Finisterra», n.º 10/11, Lisboa, 1992, pp. 91-124.
  12. Dove va la sinistra? Le due linee del socialismo portoghese, in «Euros», n.º 1/2, Roma, 1992, pp. 64-66; 142-145.
  13. Jameson: pós-moderno, in «Adágio», n.º 2, Évora, 1991, pp. 100-102.
  14. La cosa, in «Finisterra», n.º 5, Lisboa, 1990, pp. 95-109.
  15. Calvino: Lezioni americane, in «Adágio», n.º 1, Évora, 1990. pp. 64-68.
  16. Ecco s’avanza uno strano operaio, in «Rinascita», n.º 27, Roma, 1988, pp. 22-23.
  17. Gramsci: ideologia, intelectuais orgânicos e hegemonia, in «Temas de Ciências Humanas», n.º 9, Livraria Editora Ciências Humanas, S. Paulo, 1980, pp. 39-64.
  18. Santiago Carrillo, «eurocomunismo» e marxismo, in «Seara Nova», n.º 1593, Lisboa, Julho de 1978, pp. 18-21.
  19. A questão da ideologia: De «A ideologia alemã» aos «Cadernos do cárcere», in «Biblos» LIII, Universidade de Coimbra, 1977, pp. 207-268.
  20. Política e ideologia do Grupo Seara Nova, in «Seara Nova», n.º 1572, Lisboa, 1976, pp. 42-45.
  21. O poder político em Portugal, in «Seara Nova», Lisboa, Agosto de 1975 (republicado integralmente no número especial da Seara Nova comemorativo dos 20 anos do 25 de Abril, n.ºs 48-50, Março-Setembro de 1994, pp. 143-147).

 

(XIX).

Jornais.Publicou, desde 1985 (até 2001), mais de 400 artigos no «Diário de Notícias» (Opinião, Política Nacional e Cultura) [Ficheiro em organização]. Publicou, desde 2004 até 2009, 112 artigos (sobre Media e Poder e Política) no «Diário Económico». Publicou, desde 2004, 73 artigos no semanário regional «O Interior».
25.12.2013.

(João de Almeida Santos)

 

 

 

 

 

 

Actualidade de Maquiavel. Viagem pelas releituras de Maquiavel

Começo por referir algumas interessantes observações de António Gramsci sobre Maquiavel.

Os anti-Maquiavel – lembro, por exemplo, a crítica radical, e algo moralista, de Frederico II, no seu «Anti-Maquiavel, ou exame do Príncipe de Maquiavel» (London/La Haye, 1741) – não o seriam porque ele tivesse defendido teses erradas, mas sim porque o que ele escreveu «faz-se, mas não se diz» (Quaderni del Carcere, Torino, 1975: 1690).

A sua irritação dever-se-ia ao facto de Maquiavel, tendo dedicado «O Príncipe» a Lourenço de Médicis, na verdade estava a expor ao povo a arte de governar, descobrindo, por assim dizer, os truques para a conquista, conservação, reprodução e alargamento do poder. Veja-se o que, a este respeito, diz Gian Franco Berardi: «o Cardeal Reginaldo Polo, um dos primeiros que escreveu contra Maquiavel, na sua Apologia (que é de 1538), refere ter ouvido alguns florentinos considerar que Maquiavel tivesse escrito “O Príncipe”, não para ajudar, mas para indicar aos tiranos a via da ruína» (Introduzione a Guicciardini, Antimachiavelli, Roma, Riuniti, 1984, 13). Mas também Diderot, no artigo da Enciclopédia sobre o «Maquiavelismo» diz algo equivalente: «Quando Maquiavel escreveu o seu Tratado do Príncipe, é como se ele tivesse dito aos seus concidadãos: leiam bem esta obra. Si vocês aceitarem alguma vez um senhor, ele será como eu vo-lo pinto – eis a besta feroz à qual vos abandonareis. Assim, foi falha dos seus contemporâneos se eles não perceberam o seu objectivo: eles tomaram uma sátira por um elogio». Rousseau fez a mesma leitura, no Contrato Social: «Assim, fingindo dar lições ao reis, ele deu uma grande lição aos povos. O Príncipe de Maquiavel é o livro dos republicanos» (Liv. III, cap. VI).

Estas posições sobre o verdadeiro objectivo de Maquiavel nem sequer seriam incompatíveis com a dimensão teórica que adquiria esta reflexão sobre a mecânica implacável do poder, a sua lógica interna, o seu funcionamento eficaz. E, na verdade, bem mais importante do que saber se ele queria dar uma potente arma cognitiva ao povo, o que Maquiavel fez representa o autêntico início da análise política racional, separando-a da ética e da religião. Como diz Gramsci: «em todo o pequeno volume, Maquiavel trata de [explicar] como deve ser o Príncipe, para conduzir um povo à fundação do novo Estado, e a análise é conduzida com rigor lógico, com distanciação científica» (Q. 1556). E ainda: «o Príncipe toma o lugar, nas consciências, da divindade ou do imperativo categórico, torna-se a base de um laicismo moderno e de uma completa laicização de toda a vida e de todas as relações morais» (Q. 1561).

Assim se emancipa a política quer da imputação transcendente do poder («divindade») quer da imputação ética da acção política (imperativo categórico).

***
Na verdade, do que se trata, em Maquiavel, é da arte – ou da ciência – de governar de acordo com autênticas normas técnicas, fundadas na lógica e no conhecimento empírico e histórico dos homens. É por isso que, ao contrário de Guicciardini, Maquiavel se move intelectualmente ao nível europeu, do homem europeu.

O que disse, então, Maquiavel?

Quais são, então, as principais normas técnicas da arte de «governar e manter», contidas no Príncipe? Faço um curto elenco das que me parecem mais importantes, a partir do Príncipe:

O grande presuposto do Príncipe: «similmente, a conoscere bene la natura de’ populi, bisogna essere principe, e a conoscere bene quella de’ principi, bisogna essere populare» (Opere, Milano, Mursia, 1966: 59).

Este pressuposto justifica, de algum modo, a ideia de que só o povo pode julgar verdadeiramente a acção do Príncipe e, por isso, ele legitima-o mais do que se poderia supor, sobretudo se se entender que Maquiavel queria, com esta afirmação, justificar a redacção deste livro. Mas se é verdade que ele acaba por justificar a legitimidade de um juízo popular sobre a acção do Príncipe, também é verdade que este pressuposto também justifica a legitimidade do governo do Príncipe. Se a natureza dos Príncipes só pode ser bem conhecida pelos respectivos povos, também a natureza dos povos só pode ser bem conhecida pelos respectivos Príncipes, estando, por isso, só eles habilitados e, portanto, legitimados a governá-los. Príncipe e Povo são, pois, as constantes do sistema e a política desenvolve-se como relação técnica entre inúmeras variáveis.

E, ainda, como princípios:

* «li uomini sempre ti riusciranno tristi (maus), se da una necessità non sono fatti buoni» (O., 115);

** E «quelle difese solamente sono buone, sono certe, sono durabili, che dependano da te proprio e dalla virtù tua» (O., 117);

*** «perché il nostro libero arbitrio non sia spento, iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi» (O., 117);

Vejamos, então, as normas técnicas.

1. «non preterire l’ordine de’ sua antenati e, di poi, temporeggiare com gli accidenti» (O., 61);

2. «chi è cagione che uno diventi potente, ruina; perché quella potenzia è causata da colui o con industria o con forza, e l’una e l’altra di queste due è sospeta a chi è diventato potente» (O., 67);

3. «Perché le iniurie si debbano fare tutte insieme, acció che, assaporandosi meno, offendino meno; e benefizii si debbano fare a poco a poco, acció si assaporino meglio» (O., 80).

4. «Concluderó solo che a uno principe è necesario avere il populo amico; altrimenti non ha, nelle avversità, remedio» . (…) «E non sia alcuno che repugni a questa mia opinione con quello proverbio trito (comum), che chi fonda in sul populo fonda in sul fango» (O., 82) ;

5. «E principali fondamenti che abbino tutti li stati, così nuovi come vecchi o misti, sono le buone leggi e le buone arme». (O., 86) ;

6. «Questi simili modi debbe osservare uno principe savio [tomar a peito a arte da guerra, a organização e a disciplina militares e estudar «le azioni delli uomini eccellenti»); e mai ne’ tempi pacifici stare ozioso; ma con industria farne capitale, per potersene valere nelle avversità, acció che, quando si muta la fortuna, lo truovi parato a resisterle» (O., 93);

7. «Onde è necessário a uno principe, volendosi mantenere, imparare a potere essere non buono, e usarlo e non l’usare secondo la necessità» (O., 94); o príncipe deve « non partirsi dal bene, potendo, ma sapere entrare nel male, necessitato» (O., 100);

8. «E intra tutte le cose di che uno principe si debbe guardare, è lo essere contennendo e odioso; e la liberalità all’una e l’altra cosa ti conduce. Pertanto è più sapienza tenersi el nome del misero, che parturisce una infamia sanza odio, che per volere el nome del liberale, essere necessitato incorrere nel nome del rapace, che parturisce una infamia con odio» (O., 96).

9. «Debbe nondimanco el principe farsi temere in modo che, se non acquista l’amore, che fuga l’odio; perché può molto bene stare insieme essere temuto e non odiato» (O., 97);

10. «a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e l’uomo» (…). «Sendo dunque uno principe necessitato sapere bene usare la bestia , debbe di quelle pigliare la golpe e il lione; perché il lione non si defende da’ lacci, la golpe non si defende da’ lupi. Bisogna dunque essere golpe a conoscere e lacci, e lione a sbigottire e lupi. Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendano» (O., 99) ;

11. «Ma è necessario (…) essere gran simulatore e dissimulatore: e sono tanto semplici gli uomini, e tanto obediscano alle necessità presenti, che colui che inganna, troverrá sempre chi si lascerá ingannare» (O., 99);

12. «A uno principe adunque non è necessario avere in fatto tutte le soprascritte qualità, ma è bene necessario parere di averle» (O., 100); porque «ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu se’; e quelli pochi non ardiscano opporsi alla opinione di molti che abbino la maestà dello stato che gli defenda» (O., 100);

13. «li principi debbano le cose di carico fare sumministrare ad altri, quelle di grazia a loro medesimi. Di nuovo concludo che uno principe debbe stimare e grandi, ma non si fare odiare dal populo» (O., 103);

14. «Nessuna cosa fa tanto stimare uno principe, quanto fanno le grandi imprese e dare di sé rari esempli» (…). «Dare di sé in ogni sua azione fama di uomo grande e d’ingegno eccelente».

15. «È ancora stimato uno principe, quando elli è vero amico e vero inimico» (O., 111);

16. O príncipe deve «ne’ tempi convenienti dell’anno, tenere occupati e populi com le feste e spettaculi», estando também presente algumas vezes, mas «tenendo sempre terma nondimanco la maestà della dignità sua» (O., 113);

17. «La prima coniettura che si fa del cervello di uno signore, è vedere li uomini che lui há d’intorno» (O., 113); por isso, o príncipe deve eleger « nel suo stato uomini savii, e solo a quelli debbe dare libero arbitrio a parlarli la verità, e di quelle cose sole che lui domanda, e non d’altro» (O., 114);

18. «che sia meglio essere impetuoso che respettivo; perché la fortuna è donna, ed è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla» (O., 119).

Resumindo ainda mais, são as seguintes as normas que o Príncipe deverá respeitar: ter o povo como amigo; respeitar a tradição; não se tornar causa da potência de outrem; ter boas leis e boas armas; na paz, preparar-se para a guerra; ser mau quando necessário, sem se afastar do bem; fazer o mal de uma só vez e o bem aos poucos; fazer-se temido, mas evitando o ódio; ser impetuoso, mais do que prudente; dar aos outros a administração das coisas más, reservando para si a das boas; saber ser verdadeiro amigo e verdadeiro inimigo; simular e dissimular; ter qualidades, mas sobretudo parecer tê-las, porque se todos vêem o que pareces, poucos vêem o que és; ser leão e ser raposa; promover grandes empreendimentos e dar exemplos raros; escolher colaboradores sensatos; ocupar o povo com festas e espectáculos.

Estas normas técnicas são acompanhadas por três princípios transversais a todas as normas referidas: a) os homens são maus, se a necessidade não os fizer bons; b) só as defesas que dependem de ti e da tua virtude são boas, certas e duradouras; c) se a sorte governa metade das nossas acções, que sejamos nós a governar a outra metade.

Portanto, lugar para a sorte, mas também lugar para a vontade humana, neste caso do Príncipe, no governo do seu destino; neste governo, são as próprias capacidades do Príncipe que o salvaguardarão do perigo, até porque os homens são naturalmente maus. Daqui a necessidade destas normas para um governo eficaz e resistente ás insídias.

Como se pode ver estas são normas técnicas, independentes da moral, visando somente o sucesso no exercício e na consolidação do poder. Trata do bom governo, mas não necessariamente do governo bom. Não trata dos fundamentos do poder, da questão da legitimidade, mas trata da sua gestão eficaz. Não trata do modelo virtuoso de Estado, mas sim do Estado como ele é, na sua realidade efectiva, nos seus métodos de funcionamento. Trata o Estado de um ponto de vista secular e laico. É por isso que se considera que Maquiavel inaugurou a ciência política moderna, separando-a da ética e da religião e tratando o poder como um sistema com variáveis que devem relacionar-se com coerência em função da conservação e reprodução segura do próprio sistema.

Benedetto Croce, em 1924-1925, reconheceu claramente em Maquiavel estas dimensões: «é sabido que Maquiavel descobre a necessidade e a autonomia da política, da política que está para além, ou antes, para aquém, do bem e do mal moral, que tem as suas leis às quais é vão rebelar-se, que não se pode exorcizar e expulsar do mundo com a água benta. É este o conceito que circula em toda a sua obra» (…) representando «a verdadeira fundação de uma filosofia da política». Mas, continua Croce, o que foi esquecido em Maquiavel foi a sua amargura pela natureza dos homens, ingratos, volúveis, cobiçosos. Natureza que obriga a que política se dote dessas técnicas que permitem dominá-los e vencê-los na sua maldade. A valorização que Croce fará de Maquiavel e de Gianbattista Vico reside precisamente na complementaridade de ambos, lá onde a política-política de Maquiavel conhece em Vico um reconhecimento tal ( como «drama da humanidade») que lhe permite que ela se conjugue com a «vida ética» sem perder a autonomia. De Sanctis chegara mesmo a ver na sua doutrina uma revolução copernicana na concepção do homem que «tem na terra a sua seriedade, o seu objectivo e os seus meios».

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O verdadeiro alcance do legado de Maquiavel (1469-1527), não foi compreendido pelos seus críticos, designadamente por Frederico II, que, como já disse, chegou a escrever um Anti-Maquiavel. «Em política, dizei-me o que quiserdes, discuti, construí sistemas, apresentai exemplos, usai todas as subtilezas: apesar disso, no fim, regressareis ao conceito de justiça», dizia Frederico II (1712-1786) na sua crítica radical ao Príncipe (1513), em obra significativamente intitulada Antimachiavel ou examen du Prince de Machiavel (London/La Haye, 1741) e elaborada após reflexões conjuntas com o amigo Voltaire (Frederico II, Antimachiavelli, Pordenone, Edizioni Studio Tesi, 1987).

É uma obra com os mesmos vinte e seis capítulos (e iguais títulos) do Príncipe e pretende restabelecer, contra Maquiavel, o primado da justiça e da razão em face da obstinada corrupção da «política com a intenção de destruir os princípios de uma sã moral» (1987: 3). «O Príncipe de Maquiavel», diz Frederico II, «é semelhante aos deuses de Homero, fortes e potentes, mas iníquos. O autor ignora até o ABC da justiça e conhece só o interesse e a violência» (1987: 63). Se no Telémaco (1699), de Fénelon (1651-1715), «a nossa natureza parece aproximar-se da dos anjos», insiste Frederico II, no Príncipe a «nossa impressão é que ela, pelo contrário, se aproxima da dos demónios do inferno» (1987: 31). Pelo que o desejo forte do futuro rei da Prússia se traduzia em louvar «quem puder destruir completamente o maquiavelismo no mundo» e quem conseguir «libertar o público do preconceito que tem em relação à política, que deve ser um modo sapiente de governar e não um breviário de espertezas» (1987: 113-114).
Frederico II faz do Príncipe uma leitura crítica cerrada. Não se limita a refutar conceptualmente as teses de Maquiavel, chega mesmo a contestar os próprios exemplos históricos em que ele apoia as suas teses. Esta crítica poderia servir de base reflexiva e textual para a sedimentação do que hoje se entende universalmente por maquiavelismo político.

Com efeito, se folhearmos alguns dicionários e enciclopédias, poderemos encontrar, na definição do conceito ou palavra maquiavelismo, por exemplo, o seguinte:

1. «conduta artificiosa e pérfida» (Petit Larousse);

2. «termo usado na literatura política para indicar a atitude de quem sacrifica todo o escrúpulo moral para conseguir o sucesso» (Enciclopedia De Agostini);

3. «doutrina segundo a qual ao Príncipe ou ao Estado é lícito recorrer a todos os meios (incluindo o assassínio) para alcançar os seus fins» (Dicionário de Português, da Porto Editora);

4. «o maquiavelismo é o sacrifício de todos os princípios a um só, o interesse; a violação de todas as leis da moral imoladas ao sucesso» (Dictionnaire général de la politique, Paris, 1864; aqui se refere também as críticas de Frederico II e de Voltaire);

5. finalmente, «interpretação utilitarista, decadente e arbitrária da doutrina de Maquiavel» (Dizionario Garzanti).

E assim é: interpretação arbitrária da doutrina de Maquiavel.

O verdadeiro sentido da obra de Maquiavel não corresponde ao que se sedimentou no senso comum, nem à interpretação que dela faz Frederico II. Trata-se, bem pelo contrário, de uma obra que praticamente inicia a ciência política moderna:

1) desvinculando o moderno Estado laico da religião e do eticismo;

2) considerando o Estado em si, como uma entidade autónoma com lógica própria e sem vínculos naturais e ideológicos;

3) conferindo, portanto, à política o significado de técnica do e para o poder (Cerroni, U., Il pensiero poítico – dalle origini ai nostri giorni, Rona Riuniti, 1966: 322-23).

E se é certo que Maquiavel não pôde formular em sentido moderno a questão da origem ou da legitimidade do poder, portanto, não pôde formular a teoria da soberania popular, ele, todavia, afirmou decisivamente a autonomia do político, ao mesmo tempo que revelou a verdadeira natureza centáurica de todo o Estado: a presença, neste, da força e da razão (embora fosse uma razão puramente técnico-instrumental), da «bestia e l’uomo», da raposa e do leão («la golpe e il lione»), precisamente como aquele «Chirone centauro» que serviu de preceptor a Aquiles (Machiavelli, Opere, 1966: 99). «Coloro che stanno semplicemente in sul lione non se ne intendono», afirmava, com efeito, Maquiavel.

Ele é, portanto, mais do que aquele demónio da moral e da política para que a tradição o remeteu. Ele é, na verdade, o pai da política moderna. Não podendo formular a questão da soberania popular, tratou o poder de um ponto de vista sistémico, técnico-instrumental. Contra os vínculos naturalistas e religiosos, mas sem o vínculo da legitimidade. Precisamente como os sistémicos: o poder como máquina que se auto-reproduz funcionalmente. E aqui (posta a excepcional descoberta científica) está também o limite de Maquiavel e de todas as teorias que postulam a exclusividade da racionalidade técnico-instrumental em vista do sucesso, ou seja, da auto-afirmação do poder.

O poder, hoje, com a crise das teorias da legitimidade e das próprias concepções projectuais de sociedade, assumiu em muito as feições de um moderno maquiavelismo ou neo-maquiavelismo que se nutre do pragmatismo funcionalista característico das democracias pós-clássicas e das enormes concentrações de poderes económicos e mediáticos que lhe conferem uma capacidade quase ilimitada de se conservar, reproduzir e ampliar para além do próprio princípio do bem e do mal.

A moderna desideologização do poder político remeteu de novo para o Estado o exclusivismo ideal dessa asséptica lógica técnico-instrumental de conservação e de reprodução do poder, através da nova figura do moderno príncipe, que é o partido político, que, afinal, se torna tanto mais maquiavélico quanto menos assumir aquilo que se afirmou institucionalmente depois de Maquiavel, isto é, o princípio da soberania popular e os conteúdos éticos do Estado, e cada vez mais sofisticar as técnicas de administração contidas na velha máxima do «panem et circenses».

Se assim for, os pressupostos do maquiavelismo ainda estão todos presentes na política de hoje sob formas novas. E uma dessas é, precisamente, a chamada partidocracia: quando toda a estrutura institucional do Estado é usada como mero meio de conservação e de reprodução do poder de um partido ou partidos em detrimento do bem comum.

Em conclusão, a moderna crise de valores, a crise das utopias ou dos valores projectuais de sociedade e a crise da legitimidade e da representação acabaram por repor em marcha uma perigosa tendência para transformar o Estado em pura máquina laica de conservação do poder. Só que sem a virtude «maquiavélica» de afirmação de uma novidade que já o não é: a autonomia de uma política que deveria, antes, ser refundada, não em sentido neo-maquiavélico, mas sim no sentido de repor no Estado aquela justiça e razão finalista de que (teoricamente) já Frederico II falava no seu Antimaquiavel e que os contratualistas tão bem delinearam.

A escola maquiaveliana sempre teve sucesso no pensamento e na práxis política. Mesmo em Portugal, onde, no séc. XIX, o reaccionário (e um dos pais nacionais do integralismo lusitano) Gama e Castro escrevia um Novo príncipe, mais lione do que golpe, para guia eficaz do poder absoluto; ou, mais recentemente, onde Adriano Moreira via nas Forças Armadas a figura do Novíssimo Príncipe, com propensão, portanto, a valorizar também mais a parte do leão do que a da raposa (Moreira, A., O novíssimo príncipe. Análise da revolução, Lisboa, Intervenção, 1977: 87, 97).

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A leitura que António Gramsci (1891-1937) fez de O Príncipe de Maquiavel sofre muitas mediações. Nele o Príncipe, o Novo Príncipe, é o partido político. É ele, na óptica gramsciana, que prefigura o Estado e, por isso, que deve dispor de uma estratégia política capaz de conquistar, manter, consolidar e alargar o poder. Sendo o seu pensamento de inspiração marxista, ele, todavia, não concebe o Estado nem como Maquiavel nem como os marxistas. Ou seja, não o concebe de forma instrumental. É certo que a dimensão centáurica de Estado, assumida pelo Florentino, também é assumida por Gramsci na sua nova forma da combinação da força (il lione) e do consenso (la golpe). Mas também é verdade que Gramsci vai mais além, vendo o Estado como propulsor de uma hegemonia ético-política e cultural, bem longe daquela sua dimensão puramente técnica ou instrumental. E, de facto, o problema da hegemonia é, afinal, a grande questão que continua a pôr-se à política democrática.

Diversidade cultural e democracia

Proponho uma reflexão sobre o tema diversidade cultural e democracia, porque a «moldura» democrática é aquela que melhor faz emergir o tema da diversidade cultural em toda a sua complexidade e delicadeza, sabendo-se que nos regimes não democráticos a diversidade cultural nunca é garantida ou, pelo menos, nunca se exprime de forma livre e igual. Entendo, naturalmente, a diversidade cultural no seu sentido mais amplo, incluindo religiões, costumes, estilos de vida, tradições, cultura reflexiva. Diversidade que pode ou não exprimir pertenças etnográficas e territoriais, mas que certamente exprime identidades histórico-sociais, que são também diferenças sociológicas e formas expressivas diferenciadas, lá onde, paradoxalmente, afinal, a cultura surge como forma privilegiada de convergência para a universalidade. Isto é, a diversidade cultural exprime diversos modos de acesso à universalidade, quando entendemos a cultura como via de acesso aos nexos primordiais da existência humana. Esses nexos que a arte, a filosofia ou a própria ciência procuram captar de forma diferente, mas sempre sob o signo da universalidade.

O aparente paradoxo tem, todavia, resolução quando se verifica que é possível traduzir uma cultura na linguagem de outra, reconduzindo ambas à ideia comum de género, lá onde reside o núcleo distintivo da ideia de humanidade, onde estão ancoradas as grandes tensões que comandam a vida: a tensão erótica, a angústia perante a morte, a justiça, a beleza, a bondade, a guerra.

Mas se o problema existe ele deriva, em meu entender, mais da enorme amplitude que assumem as formas culturais (do folclore, em sentido gramsciano, à alta cultura, passando pela cultura de massas) do que daquilo que poderíamos designar por «núcleo duro» da cultura, ou seja, da sua dimensão reflexiva, aquela que descodifica esse complexo que envolve simbolicamente os nexos fundamentais da existência. É a grande amplitude da forma cultural que torna possível a sua historicização, a sua transformação em força material, fluxo vital, prática simbólica quotidiana. Mas é também por isso que as formas culturais, na sua expressão mais difusa, ou popular, surgem como realidades fragmentárias, caóticas e desordenadas (Gramsci). Deste modo, só a sua dimensão reflexiva permite reconduzir as formas heterogéneas de expressão cultural ao seu significado originário, removendo roupagens simbólicas puramente locais. «Uma grande cultura», diz Gramsci, «pode traduzir-se na língua de uma outra grande cultura (…). Mas um dialecto não pode fazer a mesma coisa» (Gramsci, 1975: 1377). Há uma grande diferença entre uma reflexão teológica sobre a graça ou a predestinação e os concretos rituais religiosos quotidianos que tornam viva uma crença religiosa. São estes que conferem força vital ao fenómeno religioso, mas é aquela que pode evidenciar a dimensão universal de uma religião, tornando-a compatível e traduzível nos termos de outra religião.

A universalidade das formas culturais reconduz-se ao seu núcleo íntimo, essencial, já que é nele que está inscrita uma matriz existencial, uma relação originária, ontológica, primordial do homem com o ser, seja ele natural ou divino. Nas religiões, por exemplo, a relação primordial é a que nos coloca perante a fronteira última da vida. Como nalgumas filosofias, a da existência, por exemplo. Mas pode tratar-se também do horizonte supremo do amor. De qualquer modo, trata-se sempre de uma relação originária exemplar, por exemplo, encarnada na figura de um profeta, capaz de gerar, eventualmente por imitação, como diria Gabriel Tarde, comportamentos colectivos perduráveis no tempo, institucionalizando-os, normalizando-os, ritualizando-os. Na origem da cultura científica mais complexa está uma relação física do homem com a natureza. «Prima furon le cose, e poi i nomi», dizia Galileu. E se é verdade que a universalidade do pensamento técnico-científico reside na univocidade da linguagem numérica com que opera, também é verdade que ela não deixa de residir primordialmente numa simples relação física e pragmática do homem com a natureza, logo, numa relação verificável universalmente, porque repetível. Os nomes, por mais abstractos que sejam, remetem originariamente para as coisas, como queria Galileu.

É na presença de uma dimensão universal no núcleo originário das diversas formas culturais que reside a possibilidade da sua traduzibilidade. O que é diferente dos ritos, das práticas sociais e comportamentais que essas formas culturais assumem ao longo do tempo, isto é, no processo da sua progressiva socialização. Nem o espírito do cristianismo pode decorrer da forma que assumiu no séc. XVI com a Inquisição, nem o islamismo das práticas concretas que assumiu com o domínio da cultura talibã, no Afeganistão. Mas são acessíveis através da exegese das Sagradas Escrituras e do Corão. Isto é, quando as formas culturais se exprimem, por um lado, com a linguagem metamorfoseada e mecânica do agir quotidiano e, por outro, com a linguagem do poder elas tendem, enquanto tais, a perder universalidade e, por conseguinte, tendem a perder traduzibilidade. Por um lado, porque estão contaminadas por lógicas que lhes são externas e, por outro, porque, como se compreende, é destes dois fenómenos – o agir simbólíco quotidiano e o poder – que deriva a sua concreta possibilidade de historicização ou individualização, a sua transmutação em forças materiais. Devendo-se, por isso, no caso do agir quotidiano ou dos rituais difusos, fazer um esforço de redução do complexo de práticas aos seus nexos essenciais, formulados, por exemplo, no Corão. Que, de resto, por um lado, contém repetidas alusões às Sagradas Escrituras e, por outro, se distancia, em muitos aspectos, por exemplo, no caso da poligamia (veja-se Bausani, 1988: LVI), das concretas práticas seguidas no mundo islâmico em geral. As grandes fontes inspiradoras possuem sempre uma dimensão universal, logo partilhável.

É, por isso, necessário executar uma espécie de «epochê» fenomenológica, um esforço de redução das práticas rituais aos princípios constituintes fundamentais. No caso da contaminação política das formas culturais tratar-se-ia também de suspender a lógica de poder que se lhes sobrepôs para compreender a sua profunda razão de ser, o seu sentido originário. Não é difícil

compreender quanto digo se pensarmos no integralismo islâmico ou então no famoso zdanovismo soviético.

No primeiro caso, a diversidade das formas culturais é rejeitada em nome de um monismo religioso que exclui à partida a hipótese de traduzibilidade, logo, a própria pluralidade de vivências universais. A própria tradução em línguas estrangeiras do Corão conheceu graves dificuldades nos ambientes muçulmanos tal era o conceito de unicidade, de inimitabilidade do texto sagrado. A universalidade só seria atingível através da imposição política dessa concreta mundividência, entendida como única, no sentido de que só ela continha a chave interpretativa da recta via para a salvação. A leitura teocrática da história admite uma só forma de expressão cultural, logo, anula a própria ideia de diversidade cultural.

No segundo caso, também se verifica uma indevida injunção política no campo cultural, designadamente no próprio plano da ciência, com o famoso zdanovismo ou com a doutrina do biólogo Lyssenko: a ciência, designadamente a biologia, só poderia ser instituída a partir das leis do materialismo dialéctico. Uma visão monista e antagonista do real e da história impedia a intercambiabilidade das formas culturais, lá onde a diferença era considerada erro, engano ou mentira intencional (da burguesia). Também aqui a universalidade só pode emanar de um único centro, o comunismo, não sendo admitidas formas plurais de acesso à universalidade, reciprocamente traduzíveis, e, portanto, intercambiáveis. Uma fórmula lapidar, extremamente eficaz, de Joseph Roth, pode servir de contraponto exemplar a esta visão do mundo que tudo reduzia a um dualismo incomponível. Diz Roth, a propósito de uma dança de origem afro-americana tão em voga na Europa dos anos vinte: «não se dança o charleston porque o mundo é capitalista. Dança-se o charleston porque ele é uma das formas de expressão da sociabilidade da nossa época».

 


Interacção cultural, laicidade do Estado e laicidade do debate

 

A questão da diversidade cultural inicia-se verdadeiramente quando as diversas formas de poder se relativizam, perdem a vocação totalizante, se autonomizam e diferenciam no interior dos sistemas sociais. E quando a nação deixa de fundar o Estado sob um pressuposto pré-político de carácter étnico (Habermas, 1991: 123-146). Quando a cidadania deixa de ser prisioneira do jus solis e do jus sanguinis, porque passa a ser admitido o contraponto da emigração e da renúncia à nacionalidade. É assim com a democracia moderna. Nela a diferença já não é entendida no sentido absoluto, até porque se trata de um sistema que institucionaliza a diferença no seu próprio interior e que a relativiza em relação ao exterior. Diz Rawls que as verdadeiras sociedades democráticas não fazem (ou não deveriam fazer) a guerra entre si, porque, compreende-se, o princípio do antagonismo absoluto não faz parte da sua gramática (Rawls, 1995). A diferenciação interna dos sistemas sociais, a desvinculação do Estado do seu fundamento étnico-natural e a emergência do cosmopolitismo vieram relativizar a diferença e a descomprimir o espaço da afirmação da diversidade.

As democracias tendem, por isso, cada vez mais, a incorporar nas suas constituições os grandes princípios cosmopolitas que definem uma pertença não naturalística nem tradicional de cada um à Nação e, por esta via, ao género humano. A cidadania inscreve-se cada vez mais neste registo cosmopolita que enquadra os direitos políticos de viver sob regime democrático e segundo um princípio semelhante ao que foi formulado por Kant com a lei fundamental da razão pura prática: «age de tal modo que a máxima da tua vontade [política] possa sempre valer ao mesmo tempo como princípio de uma legislação universal» (Kant, 1966: 30). O Estado desvinculou-se – já com os contratualistas assim era – do fundamento étnico-natural da Nação para se ancorar aos grandes princípios cosmopolitas, consignados na Declaração universal dos direitos do homem. Ele passou de um registo naturalista a um registo cosmopolita, por entreposta Nação. Neste sentido, não tem fronteiras nem uma identidade substancial pré-determinada. Por isso, constitui-se mais como espaço aberto de afirmação de identidades culturais múltiplas. Que não contradizem a sua vocação universal, por um lado, porque elas próprias, como vimos, possuem dimensão universal, logo, mantêm com ele um virtual ponto de contacto, por outro, porque se exprimem no plano do privado, do não público, constituindo-se como variáveis independentes de um sistema cuja constante é a Lei constitucional. Pelo contrário, é a própria universalidade do Estado que garante a diversidade cultural, já que essa é uma universalidade laica, garante dos grandes princípios, mas que não impõe à sociedade civil concretas opções culturais.

Num debate de há anos entre Michel Rocard e Paul Ricoeur falava-se precisamente da laicidade do Estado, a laicidade neutra, mas Ricoeur juntava-lhe a necessidade de promover uma laicidade do debate, que é a da sociedade civil. Entre uma e outra Rocard colocou a escola, lá onde se joga de forma mais complexa o encontro entre a laicidade do Estado e a diversidade cultural interventiva da sociedade civil. Ricoeur critica o excessivo asseptismo da escola, como resultado de uma projecção, nela, do laicismo radical do Estado francês. De onde resulta, no seu entendimento, um enfraquecimento de convicções da própria sociedade civil (Ricoeur/Rocard, 1991: 207-223).

Mas esta é que é a questão. Não intervindo directamente, o Estado tem a obrigação de promover a laicidade do debate, criando canais para que as diversas culturas presentes na sociedade civil possam surgir como verdadeiras propriedades emergentes do sistema social. O Estado, ao não impor uma identidade substancial, está a criar condições para que cada cidadão escolha ou construa livremente a sua própria identidade cultural, se construa livremente, para além do paternalismo de um Estado-nação que já nem sequer se identifica com um fundamento étnico-natural ou mesmo com um concreto território. É que as fronteiras vão perdendo significado confrontadas que estão com fluxos globais que já não têm de exibir passaporte: fluxos financeiros, comunicacionais, culturais. O que significa que o Estado não pode deixar de integrar na sua lógica estratégica interna este movimento de interacção universal.

É neste quadro amplo que deve ser entendida a diversidade cultural.

 
 


Chador, laicidade e lealdade constitucional

 
 

 

Em 1989, em França, Creil, três jovens muçulmanas apresentaram-se na escola com chador e recusaram-se a frequentar as aulas de biologia e de educação física. Foram expulsas. Depois de um longo braço de ferro, Lionel Jospin, então ministro da educação, consultado previamente o Conselho de Estado, ordenou a sua readmissão. Mais tarde, François Bayrou, ministro da educação, emitiu uma circular que proibia o uso de «símbolos ostensivos que constituam em si mesmos factor de proselitismo e discriminação». A circular usava quase os mesmos termos do parecer do Conselho de Estado.

Trata-se de uma questão altamente sensível e a sua resolução depende da posição que se tomar em relação ao carácter laico do espaço institucional da escola pública. A questão seria simples se alguém se apresentasse na escola com a suástica: estaria em causa a própria ordem constitucional e esse alguém seria expulso. O mesmo não vale para o chador enquanto a religião não se assumir como alternativa política ao Estado laico. E mesmo assim as jovens foram expulsas. A questão pôs-se precisamente porque a escola pública ocupa um lugar intermédio, logo ambíguo, entre um Estado laico e uma sociedade civil culturalmente multifacetada. A expulsão deve-se, pois, a uma leitura excessivamente asséptica – ou a um radicalismo laicista – do espaço escolar como instituição estatal. A reintegração deve-se a uma assunção da escola pública como organismo híbrido, no sentido em que o definia Rocard. Os conteúdos são laicos, mas os estudantes não são funcionários do Estado, são livres e iguais. Em meu entender, a opção de Jospin é a mais conforme ao sentido da democracia. Só o Estado não deve exibir opções culturais específicas, reservando a sua intervenção para os princípios constitucionais, mas garantindo e promovendo espaço público para a afirmação das diversas culturas, de forma livre e igual. É claro que a exibição de um chador, ou, em caso mais extremo, de uma burka (mas esta põe, pelo menos, mais problemas de identificação pessoal), pode ser interpretada como exibição da amputação de um direito consagrado constitucionalmente, a subalternidade explícita da mulher. E proibi-lo tal como se proíbe a consumação legal da bigamia.

A questão do chador foi reduzida pelo Conselho de Estado à proibição de uso indevido das instituições estatais para fins de propaganda, neste caso, do islamismo, que não para a livre expressão de convicções íntimas e singulares. Elisabetta Galleotti põe a questão da seguinte maneira. Ir à escola com chador pode significar: a) expressão da própria fé privada (o que deveria ser tolerado); b) exibição agressiva do fundamentalismo islâmico (o que deveria ser proibido); c) símbolo da subordinação feminina (o que é problemático já que a liberdade não se pode impor coercitivamente). Mas, conclui a autora, d) o chador pode significar, por parte de uma minoria cultural, linguística e religiosa, a reivindicação do reconhecimento público das próprias diferenças e identidades colectivas, socialmente marginais e facilmente objecto de preconceitos e de intolerância. A autora inclina-se para esta leitura entendida como mais congenial à democracia. Uma abertura inclusiva deste tipo, em vez de dar espaço ao fundamentalismo islãmico, pelo contrário, reforça, para o Estado, a possibilidade de exigir efectiva lealdade constitucional às diversas formas de expressão cultural ou religiosa (Galeotti, 1994: 58).


Conclusão

 

Este caso inclui exemplarmente todas as grandes questões que se põem à relação entre democracia e diversidade cultural, já que toca num elemento central do sistema democrático, a escola pública, onde se cruza a exigência de laicidade integral do Estado moderno com a emergência multicultural da sociedade civil, numa livre interacção de culturas que se exprimem no interior daquilo a que Habermas chama «patriotismo constitucional» (Verfassungspatriotismus). Se a escola pública não pode ser um lugar de culto, ela deve, todavia, constituir-se como canal de acesso cognitivo às diversas formas de expressão cultural. O uso do chador na escola, enquanto mera atitude existencial individual, ao lado de outras formas de representação externa de assunçõesinteriores, até pode representar o exemplo vivo da equidistância cultural do próprio Estado, mas também o exemplo de como o Estado pode abrir o espaço público às interacções culturais. Ou seja, fazer o contrário do integralismo religioso.

É claro que muitas formas culturais nas suas concretas articulações históricas, nos seus rituais socialmente assumidos – e, por exemplo, a questão da poligamia até no Corão é problemática – poderão conter elementos não totalmente aderentes às disposições constitucionais. Mas aí intervém o direito positivo quando um sujeito jurídico em causa reivindicar os direitos e garantias consagrados na lei ou, então, quando a esfera pública não comportar desequilíbrios que possam pôr em causa a ordem constitucional, os princípios da liberdade e da igualdade. O Estado tem o dever de promover todas as condições necessárias à plena emancipação do cidadão, para que este possa exercer a liberdade com todas as consequências. Uma cidadã francesa pode optar pelos princípios corânicos da religião islâmica mantendo-se leal aos princípios constitucionais. Ela pode, no plano político, optar pelo voto nos partidos que melhor representam a laicidade do Estado, enquanto é esta que lhe permite abraçar a religião islâmica. Numa palavra, porque este sistema é o que melhor se adequa ao exercício da sua liberdade interior.

Uma sociedade multicultural pode constituir o contraponto construtivo a um Estado que cada vez mais tende a evoluir para formas de cosmopolitismo constitucional. O exemplo europeu bem pode servir de ponto de partida para uma reflexão em torno desta questão. Se é interessante seguir as reflexões de um Federico Chabod acerca da ideia de Europa (Chabod, 1984), de uma identidade político-cultural europeia, é ainda mais interessante reflectir sobre a recomposição multicultural que esta mesma Europa está hoje a sofrer. A universalidade de que a Europa se reivindica, quer no plano político-constitucional quer no plano ideal, é perfeitamente componível com culturas que exprimem também uma universalidade que está inscrita nos seus nexos doutrinários primordiais ou originários mais profundos. E, se assim for, isso significa que a interacção produtiva e criativa é possível e desejável no quadro do moderno Estado democrático. Concluiria dizendo que a cultura é a verdadeira condição da tolerância.

 

 

Referências Bibliográficas

 

BAUSANI, Alessandro (1988) Introduzione a «Il Corano», Milano, Rizzoli.

CHABOD, Federico (1984) Storia dell’idea d’Europa [1961], Roma-Bari.

GALEOTTI, Elisabetta (1994) Il fascino discreto di un chador, in Reset, Roma, n.º 10, Outubro de 1994.

GRAMSCI, Antonio (1975), Quaderni del Carcere, Torino, Einaudi.

HABERMAS, Jürgen (1991) Cittadinanza e Identità Nazionale, in MicroMega, Roma, 5/91.

KANT, Emmanuel (1966) Critique de la Raison Pratique, Paris, PUF.

RICOEUR, Paul/ ROCARD, Michel (1991) Giustizia e mercato, in MicroMega, Roma, 2/91.

RAWLS, John (1995) Hiroxima cinquant’anni dopo, perché non dovevamo, in Vários, 1995.

VÁRIOS (1995) Hiroxima, non dovevamo, Roma, Reset.

 

(Intervenção nos Encontros Internacionais de Sintra,
promovidos pela SEDES, em 1/2 de Junho de 2002:
«A Europa, civilizações, valores e futuro»)